Roma e Livorno, demagogia sott’acqua
Istituzioni ed economia
Ieri Livorno e Roma sono finite sott’acqua e con loro è affogata la retorica luogo-comunista del M5S e la promessa di un buon governo politicamente low cost, in cui l’onestà degli amministratori avrebbe garantito per incanto l’efficienza dell’amministrazione, senza togliere niente a nessuno, ma restituendo a tutti un senso di sovranità e di partecipazione, in nome del governo comune delle cose comuni.
Roma e Livorno con i sindaci a 5 Stelle - così si diceva - sarebbero state “restituite” ai cittadini, e la volontà generale si sarebbe finalmente dispiegata a riparare i danni sovrastrutturali (i buchi nei conti e nelle strade, i tappi dei tombini, la fragilità di territorio disastrato dall’incuria pubblica e privata…), causati da un solo problema politicamente strutturale - la dittatura dei partiti e della democrazia rappresentativa - e tutto sommato facile da risolvere. Sarebbe bastato che il “loro” dei partiti fosse sostituito dal “noi” del popolo traghettato dal M5S in Campidoglio e nel Palazzo Comunale di Livorno, e le cose - con buon senso, senza drammi, senza tensioni - si sarebbero messe per il verso giusto.
Non si può certo dire che le conseguenze delle piogge di ieri siano da mettere in conto alla Raggi e a Nogarin, ma su di loro e sulle rispettive compagini pesa la responsabilità di avere raccontato un miracolo a portata di mano e di avere negato l’essenziale della crisi politica italiana, in cui il default morale della classe dirigente rispecchia una perversione non soggettiva, ma oggettiva: un vuoto di visione e di coraggio politico, un’incapacità di innovazione e una resa incondizionata alla “incompatibilità democratica” delle riforme. Anche a quelle che fanno funzionare i tombini, gli autobus o la raccolta rifiuti.
Quando Di Battista sfotteva Ignazio “sotto-Marino” e la Raggi invitava i romani a gonfiare i gommoni per navigare nella Roma allagata dalle piogge, le fogne di Roma e il cielo di Roma promettevano nuovi disastri, che sarebbero avvenuti chiunque fosse succeduto al Sindaco sacrificato dal PD sull’altare di Mafia Capitale. Per rimettere in piedi città che hanno finito i soldi e anche le idee, e che devono reinventare un modo di essere e di funzionare diverso da quello che è stato garantito a debito, servono scelte quantomeno diverse da quelle del passato.
Invece il M5S ha fatto l’esatto contrario, mettendo il proprio nuovismo demagogico al servizio di un disegno di conservazione o addirittura di restaurazione “bene-comunista”, promettendo di non toccare nulla delle rendite e delle garanzie insostenibili e di ripristinare anche il poco che era stato toccato. Si pensi alla fila di postulanti (i veri poteri forti della Capitale) che si sono messi in coda per baciare la pantofola alla nuova inquilina del Campidoglio - tassisti, bancarellari, sindacati, dipendenti diretti e indiretti dell’amministrazione... - per rimediarne immediato riconoscimento.
Si pensi alla vicenda Atac, dove la Raggi vorrebbe che i debiti dell’azienda passassero ai creditori e i crediti del comune verso l’azienda andassero a carico dei contribuenti romani - o, nuovamente, di quelli italiani per evitare il default del Campidoglio - pur di non toccare nulla dell’organizzazione di un servizio che è e rimarrà un monumento di malagestione e un ricettacolo di malaffare.
Oggi governare il dissesto finanziario e materiale di molte città imporrebbe invece l’esatto contrario, partire dall’affermazione che la ricreazione è finita e che l’interesse generale di una città non è la somma degli interessi particolari degli abitanti o dei abituali frequentatori della casa comunale.