Tutto-pubblico, tutto-morto. Il 'poraccismo' romano è l'ideologia del declino
Innovazione e mercato
Il restauro di Punta della Dogana e la Mostra di Damien Hirst alla fondazione Pinault di Palazzo Grassi che si chiuderà il prossimo 3 dicembre sono una cocente umiliazione per il poraccismo romano (categoria spiegata più avanti) e il tutto-pubblico degli invasati alla Tomaso Montanari. Cosa sia il tutto-pubblico alla Montanari invece lo sapete bene.
Cos'è accaduto a Venezia? Una Fondazione privata ha ingaggiato Tadao Ando, un grande della storia dell’architettura, senza concorso ipocrita con lottizzazione culturale del professore locale e relativo pacco di consulenti obbligati. Poi ha realizzato splendidamente un restauro moderno, litigando certamente con l'impresa esecutrice ma brandendo il randello del padrone e anche la carta di credito per liquidare con buon senso le sempre presenti varianti progettuali e ha concluso i lavori in tempi normali.
Il risultato finale è un edificio con la facies antica ma una efficienza statica e tecnologica di avanguardia praticamente invisibile ai non tecnici. Da questa estate ha organizzato una esposizione epocale, per la quale c’è stato un lavoro di preparazione di anni, facendo pagare il biglietto 18 euro (nemmeno troppo dato che la confinante Biennale di Stato costa 25) attraendo visitatori da tutta Europa. Sia giovani e colti (magari squattrinati per i bed and breakfast) sia maturi e danarosi per gli alberghi di fascia alta. Una situazione win-win difficile da attaccare se non sul piano culturale.
Questa esperienza si colloca al polo opposto del fallimento del romano mattatoio; uno spazio tutto pubblico per carità, lottizzato da 25 anni tra università, museucoli e spazi espositivi semivuoti, cavallari abusivi e villaggi globali con un baretto sperduto. Uno spazio strepitoso nel quale la politica del poraccismo romano e la mediocrità regna sovrana.
Ma facciamo un passo indietro e spieghiamo il poraccismo. E’ una categoria di pensiero per la quale qualsiasi cosa preveda un periodo di riflessione e progettazione, un investimento di danaro, una pianificazione meticolosa e rigorosa ed una attuazione altrettanto rigida sia da considerare faraonica, una americanata, imperialista e capitalista. Meglio una pizza e una birra tra amici con le pareti scrostate ad ascoltare De Gregori (mi perdoni FDG!). Dalla straordinaria Estate Romana di Renato Nicolini nel 1977 ad oggi nessun passo avanti.
Il restauro e il riuso (ma oggi va di moda dire la rigenerazione) del Mattatoio a Roma è uno dei grandi fallimenti collettivi della cultura e della politica cittadina negli ultimi 30 anni. Non ne è esente nessuno, giornali inclusi. Per i non romani va specificato che stiamo parlando di un complesso situato dentro le mura composto da decine di edifici in buone condizioni circondati da un muro perimetrale con grandi spazi pedonali e di intera proprietà comunale. Un'area meravigliosa sotto il profilo ambientale ed architettonico, perfettamente difendibile e governabile, nel cuore del quartiere più trendy della città. Al punto che il vicino mercato coperto, in declino per il decadimento della funzione sociale ma insediato in una struttura recente, si è autorigenerato in food court di tendenza.
Volendo dare la dimensione economica del complesso, se ipotizzassimo la trasformazione di tutte le superfici in laboratori, ristoranti, negozi e botteghe – e quindi con un mix funzionale tra il commerciale e il sociale – parleremmo di un compendio con valore superiore al centinaio di milioni di euro. Insomma con l’affitto del Mattatoio (ovviamente restaurato e gestito professionalmente come un centro commerciale) il Campidoglio ne trarrebbe un cospicuo reddito con il quale, a titolo di esempio, restaurare le scuole ogni anno.
Cosa impedisce tutto questo? La lottizzazione. Ma non quella considerata “per male" della prima Repubblica (ovvero quella tra democristiani, comunisti, socialisti e relativi “cespugli") bensì quella “per bene" delle università, della cultura, dei sempre poveri occupanti ed annessi abusi. Il Mattatoio è stato vittima della incapacità di decidere per non scontentare nessuno. Un pezzetto ad un pezzetto dell’Università più glamour (Architettura di Roma 3) un pezzetto ad un pezzetto di un pezzetto dei Musei Comunali (il Macro di Via Mantova) un pezzetto ad un pezzetto delle maggioranze di sinistra (la Città dell’Altra Economia) un pezzetto ad un pezzetto di occupanti molto molto di sinistra (Il Villaggio Globale) e in fondo le immancabili botticelle stanziali perché il cantiere completo delle nuove stalle realizzate a Villa Borghese e pagate con soldi pubblici è stato sequestrato dalla magistratura e quindi se ne parla tra dieci anni.
Tutto abbondantemente raccontato dai giornali sempre pronti a “denunciare" non si sa mai bene cosa ma senza accorgersi che questo non decidere è la vera spending review e non le sciocchezze sui gettoni di presenza dei consiglieri o l’acqua minerale distribuita in Giunta. L’altro sperpero di capitale pubblico sono i finanziamenti acritici, e sempre più asfittici per progressiva consunzione, alle varie istituzioni culturali che generano esposizioni spesso acquistate e mai prodotte, che producono incassi modesti ed una capacità di attrazione che non supera il Pomerio.
Indotto dell'industria culturale? Zero. Indotto dell’attrattività sulle università e la ricerca? Zero. A Roma il poraccismo ha portato all’abbrutimento di tutti, anche di quelli che sarebbero in grado di rivaleggiare con la Fondazione Pinault ma avrebbero bisogno non tanto di soldi ma della libertà di progettare, far investire con certezza i capitali privati, e non avere tra i piedi i tanti poraccetti di una cultura di piccolo cabotaggio.