Premiata Tipografia ATAC, la zecca clandestina dei partiti romani
Istituzioni ed economia
Nella vulgata popolare romana è da sempre simbolo di disservizi, controllo partitico e sindacale, scioperi creativi. Da un paio di giorni si è scoperto che Atac, l’agenzia di trasporto autoferrotranviario del Comune di Roma, è qualcosa di molto peggio: un’azienda con una doppia contabilità prodotta dallo scandalo dei biglietti clonati.
Una pratica che secondo i pm ha sottratto 70 milioni di euro annui ai libri contabili – a fronte dei circa 350 regolari ricavati dalla vendita dei ticket - a beneficio di un’intesa bipartisan che dura da 13 anni, durante i quali il Campidoglio ha accolto sindaci di tutti i colori. Lo scopo dell’ingegnosa truffa? Assicurare ai partiti finanziamenti occulti grazie a quella cassa parallela.
Una specie di zecca clandestina che stampava soldi falsi, si è giustamente detto. La procura della Capitale indaga dal 2011, con vari filoni di inchiesta, sul meccanismo gestito da dipendenti e dirigenti infedeli che producevano titoli di viaggio clonati facendoli comprare ai rivenditori con la complicità di alcuni distributori ufficiali Atac. Funzionava così: quando viene stampato a ogni biglietto è assegnato un codice, e tutti i nuovi biglietti formano la cosiddetta white list. Quando viene obliterato, il ticket dovrebbe finire in una black list che elimina l’algoritmo a cui il suo codice è associato. Però, negli anni, nessuno all’Atac si è preoccupato di creare la black list. Così nessun biglietto arrivava alla fine del ciclo, e poteva essere ristampato.
Come spesso accade, l’illecito flusso di denaro per qualcuno si riflette nel dissesto dell’azienda, ormai cronico. Atac ha accumulato un debito di 1 miliardo 600 milioni di euro e perde intorno ai 150 milioni l'anno, contribuendo al buco delle casse di Roma Capitale. Al momento non ha un euro per pagare gli straordinari agli autisti – che pochi giorni fa hanno manifestato sotto il Palazzo Senatorio – né per mandare sulle strade un parco veicoli all’altezza di un paese occidentale. E tuttavia ha gonfiato i propri organici fino 12mila dipendenti.
Non solo. Atac è la municipalizzata della parentopoli (addebitata all’ex sindaco Gianni Alemanno, in realtà perfettamente trasversale) che le ha fatto assumere centinaia di amministrativi (inclusi raccomandati e amici degli amici) quando gli autisti sono 5mila. Che elargisce stipendi d’oro ai vertici. E che un anno fa ha portato il prezzo del biglietto a 1,50 euro. Un aumento giustificato con l’apertura della Metro B1, si disse: eppure ogni giorno siti di informazione e semplici cittadini possono documentare come un numero indecente di portoghesi indisturbati viaggi a sbafo scavalcando i tornelli o con altri metodi fantasiosi.
E se non bastasse, il Collegio sindacale ha prodotto e mandato alla Procura una relazione sul bilancio d’esercizio 2012 che denuncia operazioni finanziarie spregiudicate, strani bandi di gara, errori contabili, fatturazioni inesistenti o perse, forniture fuori controllo.
Naturalmente, allo scoppiare del bubbone, l’attuale primo cittadino Ignazio Marino si è mostrato furibondo. Ha parlato di sistema mafioso e ha promesso un totale repulisti. Ha assicurato che lo sconcio non è più in atto. Ha annunciato, dulcis in fundo, che Roma Capitale si costituirà parte civile nel processo, o nei processi, che verranno. Nel frattempo, sulle agenzie, andava in scena il consueto battibecco tra sinistri e destri che si rinfacciavano le responsabilità di questa ennesima vergogna. Ma quella che potrebbe sembrare un’ordinaria storia di malcostume italiano e romano, volendo, ha una morale inservibile per la classe politica tutta.
Se Atac fosse un’azienda privata, probabilmente avrebbe portato da tempo i libri in tribunale. E gli artefici della truffa sarebbero chiamati a rispondere di bancarotta fraudolenta. Così non è perché Atac è pubblica. Tutela cioè un bene comune, come usa dire da qualche tempo. Ovvero il bene dei partiti, che si combattono sanguinosamente a chiacchiere e tengono ben salda la mano morta su tutto ciò che controllano. A volte con effetti illegali, spesso con ordinari sprechi, inefficienze e clientelismi. Magari legali ma figli della stessa logica.