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L’articolo di Piercamillo Falasca qui su Strade, che riprendeva l’idea sviluppata anni fa in un paper per l’Istituto Bruno Leoni, di istituire una assicurazione obbligatoria sugli edifici detraibile dalle tasse per gestire in maniera più intelligente i futuri rischi sismici (e non solo sismici), ha scatenato polemiche e alcune discussioni interessanti sui social network.

Al di là delle obiezioni più banalmente confutabili, come quelle di chi sostiene che nessuna assicurazione si farebbe carico di un rischio tanto elevato - elevato? Sicuri? Quante volte la vostra casa è crollata per un terremoto? E quante volte invece avete fatto un incidente con la vostra macchina regolarmente assicurata? - uno dei tratti comuni di queste discussioni è che per una serie di motivi, primo fra i quali la difficoltà di adeguare a pratiche costruttive adeguate centri storici antichi e di valore, il rischio andrebbe accettato così com’è. Se i problemi sono complessi - e in questo caso senza dubbio lo sono - e se non c’è a portata di mano una soluzione facile, di quelle che “basta fare così o cosà e il problema svanisce”, allora meglio mettersi il cuore in pace e lasciare le cose come stanno.

Effettivamente la ricerca e lo spaccio di soluzioni facili a problemi complessi è uno dei volani di consenso più efficaci da sempre, e lo è in particolare nell’Italia di oggi. Basterebbe uscire dall’euro, basterebbe tagliare le tasse, basterebbe far pagare le tasse, basterebbe mandare in galera i politici, basterebbe non fare regali alle banche, basterebbe votare No (o Sì) al referendum, basterebbe licenziare i dipendenti pubblici, basterebbe rinunciare agli F35, basterebbe cacciare gli immigrati… L’elenco delle cose che “basterebbe fare” per rimettere tutto a posto è lungo, e ha trasformato il dibattito pubblico di questo paese in una continua e mortificante discussione da bar. Anche oggi, dopo il terremoto - ed è successo dopo tutti i terremoti di nostra memoria - la tentazione di discutere in questo modo è forte, insieme alla tentazione di individuare un capro espiatorio buono per tutte le occasioni: i costruttori che speculano, i politici che rubano, gli scienziati che “non prevedono”, le trivelle che perforano, fino alle più grottesche teorie complottiste che hanno anche in queste ore ricominciato tristemente ad affollare i social media.

Se poi il problema risulta più complesso, e non riesce a essere racchiuso in un’unica parola d’ordine, si fa strada il fatalismo: allora non c’è niente da fare, mica possiamo fare come il Giappone. Cosa vuoi fare, radere al suolo i centri storici e ricostruirli moderni e sicuri? E poi i turisti dove li mandiamo? Fino al più trito dei luoghi comuni: bisognerebbe cambiare mentalità, e gli italiani la mentalità non la cambiano. Mai. Se ci danno i soldi per adeguare la casa, finiremo per farci una veranda sul terrazzo. Siamo fatti così, e più non dimandare.

E invece non è vero. Spesso la mentalità la cambiamo, eccome, e spesso abbiamo cambiato anche drasticamente le nostre priorità, in base a una diversa, e nuova, percezione dell’ordine di grandezza dei rischi. Spesso ci siamo - coerentemente - accollati spese rilevanti, per adeguare la nostra vita reale al nostro nuovo modo di intenderla. E spesso questo è avvenuto sotto lo stimolo della legislazione, che in qualche caso si è rivelata sorprendentemente efficace nel creare una nuova “domanda” precedentemente assente, assecondando un processo già in atto o anche determinandolo ex novo. Mi vengono in mente tre esempi, molto diversi fra loro, che possono rendere la misura della cosa e che mi confortano nell’idea che invece sì, la domanda privata di sicurezza antisismica potrebbe aumentare. Due di questi esempi riguardano proprio case e centri urbani - e per certi versi testimoniano di occasioni clamorosamente mancate per adeguare il patrimonio edilizio esistente.

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Alcuni decenni fa lo spopolamento dei borghi e delle aree rurali, soprattutto al centro-sud, sembrava un processo ineluttabile, e insieme ad esso sembrava ineluttabile l’abbandono e il degrado progressivo dei centri storici e dei fabbricati rurali. Prima le ondate migratorie in uscita, che si sono susseguite per circa un secolo, poi la preferenza, da parte delle popolazioni locali, per le case “nuove” delle periferie dei paesi, più comode, più facilmente raggiungibili in automobile, spesso assegnate come case popolari mentre le vecchie case del centro avrebbero avuto bisogno di costosi restauri. Insomma, il destino di borghi e paesini - come anche dei numerosi casali che punteggiavano le nostre campagne - sembrava segnato. Poi qualcosa è cambiato.

Personalmente collocherei nel tempo questo cambiamento verso la metà degli anni ’80, che più o meno ha coinciso con un salto generazionale: la generazione della contestazione degli anni ’70 cominciava a mettere sù casa e famiglia. E’ chiaramente una ipersemplificazione, ma sono convinto che dietro al ritorno ai centri storici e agli edifici antichi, dietro all’idea che dal “vecchio” e dal “tradizionale” potesse nascere valore economico e senso di comunità, ci sia una cesura culturale che corrisponde più o meno con una cesura generazionale.

Qualunque siano le ragioni, è un fatto che progressivamente i centri storici sono stati nuovamente presi d’assalto, e con loro i vecchi casali di campagna. Dai residenti, che lasciavano le nuove case dei genitori nelle zone PEP dei paesi, quelle brutte con gli infissi in alluminio, per risistemare le case dei nonni in centro, o in campagna. Dagli emigrati, che tornavano in paese l’estate, e che hanno cominciato a considerare l’idea di comprare una di quelle casette fatiscenti, e farne una piccola casa di villeggiatura. Da nuovi visitatori, italiani e stranieri, che hanno comprato, recuperato e restaurato - si pensi alle dimensioni del fenomeno in Toscana o in Umbria. Dai turisti, che hanno cominciato a privilegiare la vacanza in agriturismo, nella dimora storica restaurata o nel piccolo b&b di paese, mettendo in crisi vecchie zone di villeggiatura, con le loro vecchie strutture alberghiere demodé, e favorendo lo sviluppo di nuove.

E’ stato un fenomeno in larga misura spontaneo, ma che è stato accompagnato dagli anni ’90 a oggi da una enorme mole di risorse pubbliche, e qui siamo alla prima occasione mancata. Chi scrive ha potuto ristrutturare un grande casale per destinarlo all’attività agrituristica, beneficiando grazie ai fondi europei di quasi la metà dell’intero importo dei lavori, a fondo perduto. Non ricordo, a più di quindici anni dalla fine dei lavori, i particolari tecnici del progetto, ma posso dire che al di là del consolidamento strutturale dovuto alla realizzazione di solai in calcestruzzo, la resistenza ai terremoti non era tra gli obiettivi da perseguire per accedere al finanziamento. Obiettivo 5B, Agenda 2000, GAL, Leader 2, Piani di Sviluppo Rurale, sono solo alcune delle sigle attraverso le quali il patrimonio architettonico rurale delle zone svantaggiate è stato “recuperato” e “valorizzato” grazie, in larga misura, alle risorse messe a disposizione dai contribuenti europei. Risorse ancora in larga misura disponibili, ma mai destinate esplicitamente all’adeguamento antisismico degli edifici.

Quindi, c’è stato un cambiamento culturale, assecondato e favorito dall’intervento pubblico, che ha modificato le nostre abitudini, spingendoci a prediligere una certa tipologia architettonica ad altre più in auge nei decenni immediatamente precedenti, generando in questo senso una significativa domanda privata. Le risorse che hanno favorito questo processo su larga scala purtroppo non sono servite a rendere le case più sicure, ma solo più belle e più funzionali. E’ un vero peccato, perché oggi questo fenomeno si è arrestato - non tanto culturalmente quanto socialmente, anche per colpa della crisi economica che ha ricominciato a spingere i giovani lontano dai loro luoghi d’origine -, le case dei borghi e delle campagne italiane hanno perso di nuovo valore economico scoraggiando qualsiasi ulteriore intervento su di esse.

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Sempre fino a poco tempo fa, l’efficienza energetica degli edifici non era una priorità per nessuno. Siamo un paese mediterraneo, non abbiamo inverni rigidi come quelli dell’Europa continentale, e questo può aver favorito un certo ritardo nell’adozione generalizzata di tecniche costruttive in grado di generare significativi risparmi energetici, eppure i risparmi che anche in Italia si possono ottenere installando doppi vetri, coibentando i soffitti, “incappotando” le pareti con materiale isolante e dotandosi di caldaie di ultima generazione sono molto consistenti. E non c’è nemmeno bisogno di spiegarlo, perché ora lo sappiamo tutti, e tutti più o meno stiamo cercando di adeguare le nostre case ai migliori standard di efficienza energetica.

Lo facciamo per l’ambiente, spinti dall’allarme per i cambiamenti climatici, lo facciamo per risparmiare denaro, lo facciamo per guadagnarne, dal momento che molti di questi lavori sono detraibili dalle tasse. Solo dal 2010 al 2016 - lo faceva notare sempre Piercamillo Falasca in un suo articolo sul Foglio, “il valore degli importi detraibili per la sola riqualificazione energetica – cioè il famoso ecobonus – supera abbondantemente i 12 miliardi di euro”.

Anche qui, un cambio di mentalità generalizzato, accompagnato (in questo caso anche direttamente stimolato) da risorse messe a disposizione dallo Stato. Una nuova occasione mancata, data la quantità di risorse messe in campo e dal volume degli interventi effettuati? Pare proprio di sì: negli stessi sei anni, ricorda sempre Falasca, “i vari esecutivi hanno stanziato nel Fondo per la prevenzione del rischio sismico una somma complessiva inferiore al miliardo di euro”.

Occasione mancata dopo occasione mancata, arriviamo ai nostri giorni, alle risorse che mancano, al valore degli immobili crollato - specie nei luoghi più a rischio, i centri storici dei paesi dell’Appennino centro-meridionale, e alle analisi post-terremoto che in una situazione del genere rischiano di essere solo chiacchiere al vento, in attesa del prossimo evento catastrofico. Se non possiamo contare sulle risorse pubbliche disponibili in passato per stimolare il cambio di mentalità necessario a generare una generalizzata domanda privata di sicurezza antisismica, come si fa?

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Il terzo esempio che mi piacerebbe ricordare non ha a che fare con l’edilizia, né con l’urbanistica, ma comunque con un’abitudine tanto radicata da sembrare apparentemente inestirpabile, almeno nelle forme a cui eravamo abituati: il fumo. Io sono cresciuto in una casa che puzzava di fumo. Non quello dei miei genitori, che non fumavano e anzi mi hanno sempre ammonito (invano, dato che io stesso ho smesso di fumare appena due anni fa) sui rischi del tabacco, ma dei miei nonni, che mi volevano bene, erano persone informate, eppure fumavano in casa anche quando c’ero io, ancora bambino. La puzza di fumo mi ha accompagnato ovunque: a scuola, nei corridoi e nei bagni - ma qualche insegnante che fumava in classe c’era sempre -, in automobile, nei locali dove da un certo momento in poi ho cominciato a trascorrere il tempo libero con gli amici, soprattutto la sera, negli uffici, dappertutto.

Oggi l’idea che si possa fumare in casa di fronte a un bambino, genera, nella maggior parte dei casi, sincero raccapriccio, così come accendere una sigaretta a tavola, provoca, nella migliore delle ipotesi, severe alzate di sopracciglio, se non veri e propri cori di biasimo. I fumatori accettano l’idea di autoconfinarsi nelle tristi aree loro destinate, se non fuori, all’aperto, con qualsiasi condizione meteorologica. E tutto questo è avvenuto, nel nostro paese, contestualmente all’approvazione di una legge che vietava il fumo nei locali pubblici. O sarebbe il caso di dire che è avvenuto proprio grazie all’approvazione di quella legge.

La “legge antifumo”, o “legge Sirchia” dal nome del ministro della Sanità del governo Berlusconi che la istituì, è un caso molto particolare di legge alla quale, nonostante le aspre polemiche che ha provocato, gli italiani si sono adeguati volentieri. Non molti sanno che l’obbligo per i gestori di bar e ristoranti di segnalare alle autorità di pubblica sicurezza chi contravviene al divieto è decaduto già da molti anni, dopo una sentenza del Tar: oggi a nessuno o quasi viene comunque in mente di accendersi una sigaretta al bar o al ristorante, a prescindere dalla sanzione o dalla probabilità di essere beccati a sgarrare.

In realtà quella legge ha rimosso una scusa, il “così fan tutti”, che ci impediva di fare quello che avremmo comunque voluto fare. Sembra un paradosso, ma non lo è: fumare nei luoghi pubblici ci dava fastidio, lo giudicavamo un comportamento riprovevole, ma lo facevamo lo stesso “perché tanto lo fanno gli altri”. Sebbene smettere di fumare al ristorante costi - almeno sul piano economico - molto meno di quanto potrebbe costare rendere la propria abitazione più resistente ai terremoti, ci sono alcuni elementi in comune tra le due situazioni. Anche in questo caso sappiamo che dovremmo avere più cura della qualità degli edifici in cui abitiamo, conosciamo i rischi che affrontiamo a non curarcene, eppure non ce ne curiamo. Essenzialmente, perché nessun altro se ne cura, e questo rende tutto più difficile.

Come reagirebbero i nostri amici e parenti a vederci traslocare, oppure a vederci affrontare costose ristrutturazioni, quando spiegheremmo loro che lo facciamo per paura dei terremoti? Come reagirebbe l’assemblea di condominio di fronte a una nostra proposta di effettuare una perizia sul nostro palazzo, ed eventualmente di condividere i costi di un adeguamento strutturale? Come reagiremmo noi stessi una volta messi davanti all’evidenza che abbiamo speso male i nostri soldi, ristrutturato male, acquistato la casa sbagliata? Meglio non pensarci nemmeno. Quello che temiamo è il biasimo sociale che potrebbe derivare dalla messa in atto, in solitudine, di un comportamento virtuoso. Un po’ come l’idea di chiedere agli avventori di una birreria, nel 2003, di smettere di fumare al chiuso: nulla di più facile, nulla di più difficile.

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Finora, nella caccia al capro espiatorio a cui attribuire la responsabilità - vera o presunta - dell’esito disastroso di un terremoto che altrove avrebbe provocato danni assai più contenuti, abbiamo sempre indicato tutti i protagonisti della filiera edilizia, dalle autorità pubbliche al progettista al costruttore, tenendo sempre fuori, chissà perché, il padrone di casa, ovvero quello che avrebbe un reale interesse a vivere, lui e la sua famiglia, in una casa resistente ai terremoti in un paese sismico. Chissà perché, fino a un certo punto: in genere ci interessiamo ai terremoti dopo i terremoti, poi tendiamo a dimenticarcene, ed è obiettivamente difficile far ricadere il nostro biasimo su chi si trova ancora sotto i cumuli di macerie di quelle case sbriciolate, o sta affrontando lutti e sofferenze personali indicibili. Eppure consideriamo - giustamente - lo Stato responsabile del crollo della casa dello studente dell’Aquila o della scuola di San Giuliano: erano edifici pubblici, era responsabilità delle autorità pubbliche renderli sicuri.

Quello che volevo arrivare a dire - e forse ci ho messo troppo -  è che probabilmente anche in questo caso, come nel caso della legge Sirchia, abbiamo bisogno di un aiutino che ci permetta di cominciare a fare quel che sappiamo essere giusto fare, magari alleggerendo del necessario la nostra cattiva coscienza. Può essere un’imposizione per legge? Un incentivo generalizzato? Un piano pubblico per la messa in sicurezza del patrimonio edilizio e urbanistico nazionale, con modalità da DDR e con effetti - presumibilmente - da DDR?

La proposta - e qui torniamo all’idea da cui è partita questa disamina - di una “RC casa” obbligatoria e detraibile non è un’idea risolutiva, ma ha il pregio - di fronte alla necessità di generare domanda privata di sicurezza antisismica in un paese sismico - di mettere in movimento energie e risorse individuali, proprio quelle che oggi mancano, attraverso una forma “soft” di responsabilizzazione personale rispetto all’edificio in cui viviamo e facciamo vivere la nostra famiglia. E avrebbe anche il pregio di misurare il rischio attraverso gli strumenti statistici di un assicuratore, variabili caso per caso e casa per casa, piuttosto che con i criteri generici ad ampio spettro - one size fits all - delle norme edilizie, che sono spesso paraventi per non intervenire oltre il minimo sindacale.

La rimozione degli alibi a non agire, questa in ogni caso dovrebbe essere la priorità, qualunque sia la strada che si decide di seguire. La responsabilizzazione, piuttosto che la deroga alle proprie responsabilità. E il superamento di questa idea provinciale che la complessità non possa essere affrontata se non allargando le braccia e sospirando. Sia che si tratti di case in pietra di un centro storico appenninico, cosa senz’altro complessa, costosa, a volte antieconomica, sia che si tratti di capannoni industriali della Bassa Padana, impresa molto più abbordabile, perché in Italia si continua a morire tanto sotto le prime quanto sotto i secondi.

@giordanomasini