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Non è che “gli italiani” non conoscano a quale grado di inconsistenza sia giunto il loro diritto di difesa. Lo sanno così bene da non aver votato. In massa. Apparatchik e traviati, a parte. Sembra un paradosso, ma non lo è.

Dopo trent’anni, da Mani Pulite a Loggia Ungheria, passando per tutte le mafiepolitiche, le trattative, le Saguto, i Palamara, i processi Borsellino e depistaggi e così via, nonni, padri, figli e nipoti, sono perfettamente in grado di tracciare una linea di demarcazione secondo ragionevolezza, e trarre le debite conseguenze. Su colpe, vergogne, e parassitismo di posizione istituzionale.

La considerazione verso i magistrati è stabilmente attestata sotto il livello delle scarpe: negli anni ‘90, godevano del consenso di oltre nove cittadini su dieci; all’inizio di quest’anno, solo uno su tre, il 32%, dichiara di avere fiducia nella magistratura (Ipsos): il livello più basso di sempre.

Se era questione di idee chiare, e di relazione fra informazione e decisione politica, la percentuale di consensi “per disistima” sarebbe stata schiacciante, e l’esito del voto, opposto a quello registrato.

Si è sostenuto che l’avvocatura, nella sua dimensione associativa, non ha sostenuto questi referendum. Di qui, un convinto boicottaggio del voto referendario.

Sfugge, a quanto pare, che le persone cosiddette comuni, ampiamente se ne fottono, absit iniuria verbis, dei deliberati dell’UCPI (e chi sono?, si chiedono). I cui “scioperi”, collaborazionistici e asserviti al birignao inoffensivo dei “comunicati di fuoco”, delle “intollerabili negazioni di giustizia”, delle “battaglie di civiltà”, se va bene, riscuotono minore attenzione di un gattino fuggito sull’albero.

D’altra parte, la “puntuale testimonianza” dell’avvocatura associata suscita un migliaio scarso di “like”, quando è grasso che cola: nonostante ci siano circa 60.000 penalisti, con un numero variabile di “assistiti” ciascuno, e parenti e amici di quelli, e uomini e donne, anche se non “assistiti”, interessati a vario titolo a non morire di barbarie giudiziaria (persino i pochi che domenica hanno votato, sono comunque vari milioni).

Come pure se ne fottono, “gli italiani”, del “grado di complessità” dei quesiti. Si vota, da Monarchia/Repubblica in poi (su cui pure si spesero fior di argomenti storici, politici, filosofici), per intelligenza generale dell’argomento, non per acribía seminariale.

No. Se non hanno votato, “gli italiani”, non hanno inteso d’improvviso negare la loro già attestata sfiducia verso la magistratura italiana, o genericamente verso la giustizia; o verso quesiti “troppo tecnici”. Gli “italiani” hanno clamorosamente manifestato la loro sfiducia in particolare proprio a coloro che quel diritto di difesa dovrebbero incarnare: gli avvocati.

Come dire: siamo ormai così al di sotto di qualsiasi aspettativa, da non credere che niente e nessuno possa minimamente intaccare lo strapotere dei magistrati. Meno che mai chi, per ruolo e conoscenza di uomini e cose anche giuridiche, avrebbe dovuto e non ha fatto. Conclusione di puro, sebbene disperato, buon senso.

Ecco perché quella percentuale. Pertanto, l’avvocatura come categoria ha poco da spumeggiare indifferenza, per il non-esito dei referendum: perché “se ne era tirata fuori”. Non se ne è tirata fuori. È rimasta fuori. E non solo dai referendum. Ma dal Processo. Fuori. Dove è sempre stata in questi trent’anni di inabissamento. Si tratta solo di una indecorosa variante della Volpe e l’Uva.

Paga di guardare alle tragedie dissolutive e inumane in cui si sostanzia “il fatto processuale”, e di alimentare un immondo gioco delle parti. Tu rovini, io chiacchiero e poi mi batto il petto e mi strappo i capelli. E infine, col pretesto ambiguo del “dialogo fra curia e foro”, servi e padroni, ognuno torna e resta al posto suo.

Con le poche eccezioni di cui sono registrabili sparsamente gli sforzi, segnate da tribolazioni, vessazioni, oneri senza alcuna proporzione con le attività difensive esperite e con le conseguenze patite, questo voto sancisce la più bruciante presa d’atto della inaffidabilità di una figura, che avrebbe dovuto assumere rango storico e politico; ed invece, già alla svolta di Mani Pulite, si era piegata in una postura gregaria e sterile.

È stato un voto di cui vergognarsi per i decenni a venire. La celebrazione di una miseria disperante, di una incapacità innalzata a panneggio paraprofessionale. Di fronte ai quali, chi ha maturato la sua personale e umile secessione da simile mondo fantasmatico, non può che sentirsene amaramente riconfortato.

Ma peggio ancora è stato compiacersi di un tale fallimento, gloriandosi di una “alterità” che è solo viltà maltravisata: “in nome della toga”. D’altra parte, i Bonafede da quale “categoria” provengono”? Chi li ha “forgiati”?

In una nota opera di Francois Furet, insigne storico della Rivoluzione Francese, c’è un capitolo intitolato “La Rivoluzione degli Avvocati”. Per dire che, a grandi battaglie, non possono che corrispondere grandi oneri. Ben più che la propria agenda.
Quasi l’80% degli “italiani” ha certificato che con questa “difesa”, con questo “istituto”, non si dice una rivoluzione epocale, ma non si può fare nemmeno una irridente pernacchietta. Riceverla, casomai.