Grillo Bongiorno grande

Grillo. Figlio. Accusa di stupro. Video. Difesa. Italia. Questi avrebbero dovuto essere gli estremi segnaletici della nota discussione sulla nota vicenda, corsa in queste ultime ore, sul web e altrove. Italia, soprattutto. 

Se posso dire, però, non una discussione c’è stata, ma un sovrapporsi di monologhi: sordi l’uno all’altro e sordi alla platea. Dunque, indifferenti alla critica, irresponsabili. Consideriamone due, a compendiare la generale sordità, o disconoscimento di senso.

Il primo. Grillo senior proclama, “in nome del padre”, che il figlio sta soffrendo l’ingiustizia di una “pendenza” giudiziaria: da due anni, è accusato, e la sua vita è sprofondata in un limbo amorfo e insignificante. Perché non c’è più un uomo: ma una “persona sottoposta”. Una specie di “maschera”, di personaggio costretto ad un copione obbligante: sottoposta alle indagini, ad un potere di accertamento via via deformatosi in puro dominio, in potere di annientamento. Niente resta ad un uomo sospeso dalla sua stessa vita, dai suoi molteplici e imprevisti significati, prospettive, possibilità: l’uomo è apertura, tempo in movimento, forza vitale; “l’indagato” è chiusura, attesa immota, impotenza. Tutto vero, Grillo. Tutto vero. E lo vuole spiegare a noi?

Ma quella pendenza espropriante, è frutto di volontà e scelte umane. Muove un Maelstrom. Solo che qui, Allan Poe non c’entra, né agiscono forze trascendenti. C’entrano leggi e agiscono legislatori che quelle hanno incarnate. I legislatori hanno avuto mentori, e una “narrazione pedagogica”. Cattivi maestri; e, risalendo nei decenni, cattivi maestri dei cattivi maestri. Tutto umano. E politico.

Il simbolo conclusivo di questo potere inattingibile è la legge sulla “prescrizione mai”: “Pendenza Perpetua”, “Pendenza Uber Alles”. Ne sa niente, Grillo? Ma sì che lo sa.

Simbolo, però: terribile, incivile, inumano, ma pur sempre simbolo. Perché sotto, di fianco, e in ogni dove intorno al simbolo, c’è dell’altro. Molto altro. C’è la metastasi di un sentimento plebeo della vita associata, impastato di rancore, di “avidità emancipante”, condotti a grandezze di massa, da muta canettiana, latrante e a caccia.

Affinché tale sentimento si traducesse in azione, e questa in risultato tangibile, occorreva un nuovo “spazio vitale”; per conseguire questo “spazio”, occorreva uno strumento. Questo “strumento” è il Processo Penale Apparente. Nel senso preciso che vi appare una Difesa, ma solo come figurante, come “fattore legittimante” di una nequizia ordinamentale, sistematica, superiore e inarrestabile. Essenziale, che appaia altro da quello che in effetti è: deve sembrare una “giusta contesa”. E deve, al tempo stesso, essere un Processo votato all’infinito, come un Inferno sempre gorgogliante e mai intellegibile veramente: capace di sempre nuove e imprevedibili evoluzioni, aggressioni, sopraffazioni. La “pendenza”.

Così, ne possono germogliare “naturalmente” i suoi “fiori del male”: l’Accusa-Condanna, l’Assoluzione Vana, e, dunque, Condanna pur’essa. Da volgere nella direzione prescelta in lode del mistificante “sentimento emancipante”: via “i ladri”, giù “la casta”, e il nemico lontano, e quello vicino: dove la definizione di “nemico” si attaglia ad ogni voglia, ad ogni dimensione; dal consigliere di quartiere al Ministro, dall’infermiere al chirurgo, magari di fatto giudicato da un “collega consulente” semianalfabeta, che non ha mai visto una sala operatoria, nemmeno in effige; e tuttavia “scova la malasanità” e così sia.

Ma così “autorizza” il Sistema. Così vanno su, “elevati”, promossi, “emancipati”, lanciati avidamente sulle “opportunità” create dal nuovo “spazio vitale”, “l’Italia negletta”, ferocemente rosso-bruna e riscattata, i “poveri a 5S”: la prosecuzione di Mani Pulite con altri mezzi.

Ora, in un simile “Processo”, ci si può stupire se Grillo, pur spinto dal bisogno e dallo struggimento di padre, non abbia saputo introdurvi altro che se stesso: il suo “Essere Grillo”? Le sue parole, la sua sottocultura, la sua inciviltà personale e politica? E abbia riproposto il decrepito, ma mai domo, vis grata puellae? Dove “grata”, latinamente, sta per “gradita”; e, dunque, violenza sì, (se mai c’è), ma, in fondo, si tratta di una non-violenza, perché “le è piaciuto”, la “puella” ha “gradito”, appunto? Saltando a piè pari la libertà morale di distinguere fra consenso al gioco umano, anche civettuolo, persino seduttivo, allusivo, e consenso all’aratura sessuata di sè, del corpo, e di sè in quanto corpo animato? Insomma, cancellando con una frasetta notissima per il suo valore equivoco e vile, tutta la distanza che decenni di impervia ma limpida militanza civile hanno tracciato: fra un invito a cena e un “fiero pasto”, fra il nutrimento (qualsiasi nutrimento) e il cannibalismo (qualsiasi cannibalismo)?

No. Grillo, non poteva andare oltre Grillo. E considerare che se c’è un figlio, qui, sempre e ovunque dove un uomo e una donna si parlino e si cerchino, c’è anche una figlia. Perciò, non sapendo risolvere l’obliqua contraddizione fra il Processo Apparente, ridotto alla sua “pendenza” perenne e nullificatrice, e il desiderio di riscattare il figlio da quella morsa, anziché denunciare la radicale iniquità dello “strumento”, ha introdotto un argomento allusivo, “pensato” come adeguato all’infame natura di un congegno negatore dell’uomo in quanto uomo. L’Apprendista Stregone è finito allo specchio.

Ma qual è l’altro monologo esemplare? Nasce, ovviamente, pure questo dal Processo Apparente: da questa patria di ogni alienazione e allucinazione, in cui le parole e i ruoli non hanno più alcun senso effettivo, e sono figurazioni volte ai più vari scopi; tutti, s’intende, rigorosamente “extraprocessuali”, e compendiabili nella “promozione di sè” e nella voluttà di Esser-ci (una specie di “Dasein” aberrato, o di Heidegger da Wikipedia).

L’Avv. Giulia Bongiorno ha dichiarato: “Porterò in Procura il video di Beppe Grillo: reputo che sia una 'prova a carico' di una mentalità”. Non propone una discussione di ordine culturale: l’unica pertinente ad “una mentalità”, e l’unica che, perciò, può fecondare un qualche risultato. No. Per la “mentalità”, propone una sorta di psico-processo, in quanto possibile argomento (non importa quanto vieto, come già detto) di una futura difesa: “è un metodo che viene utilizzato dagli uomini, per giustificarsi quando sono imputati”.

Non siamo di fronte ad una discolpa, più o meno razionalmente credibile o moralmente fondata: ma è l’atto del discolparsi da “imputati”, cioè, in un’aula di Tribunale, ad essere prospettato puramente e semplicemente come “criminale” in sé; tanto da risultare suscettibile, esso, e non la condotta contestata, di “prova a carico”: da sottoporre, in quanto “difesa criminale”, alla cognizione di una Procura della Repubblica.

Se Grillo, si è posto rispetto al Processo Apparente così tenacemente voluto (ma immaginando dovesse macinare unicamente gli “altri”), “intonando” la sua personale pochezza argomentativa alla pochezza dello “strumento” - luogo vuoto per argomenti vuoti; Bongiorno, a sua volta, benedice quella micidiale apparenza; e scandisce una universale equivalenza fra Reato e discolpa, imputato e colpevole, Processo e condanna.

L’uno agisce “dall’esterno”, l’altra, invece, in una involuzione babelica ormai irrefrenabile, “nella qualità”. Legittimando il transito “culturale” dal “fatto che costituisce reato”, alla difesa (anzi, alla “linea di difesa”, testualmente), che “costituisce reato”.

L’argomento di Grillo andava contestato come cascame sottoculturale, e sintomo di una più generale inconsistenza: riflessa nella ideazione politica e culturale del Processo Apparente. Ma quando quello stesso argomento venisse introdotto in Tribunale, sarà infondato; sarà una difesa che si affida ad una allusione: ma, in nessun modo, una volta assunta come discolpa tecnica, presidiata dalla Costituzione della Repubblica, dovrà considerarsi ”criminale”.

Tina Lagostena Bassi, fiera promotrice di civiltà forense, con sdegno rifiutava offerte portate al banco del Giudice che, pretendendo di essere riparatrici, erano solo corruttrici; con sdegno, in aula, e di fronte alla Giurisdizione, combattè quegli argomenti, contro tutti i Grillo di ogni tempo. Ma mai, mai, pensò di denunciare quelle difese come “fatti costituenti reato”: “cosa intendiamo quando chiediamo giustizia, come donne? Noi chiediamo che anche nelle aule dei tribunali, ed attraverso ciò che avviene nelle aule dei tribunali, si modifichi quella che è la concezione socio-culturale del nostro Paese”. Mutare la cultura a partire dalle aule, da dentro a fuori; dove solo si può consolidare la coscienza del giusto e non portare la questione culturale in sé al banco, da fuori a dentro, rendendola, letteralmente, un crimine. E questo chiedeva “come donna e come avvocato, per la toga che tutti insieme portiamo. Perché la difesa è sacra, ed inviolabile”. Era il 1979.

Ora è il Tempo del Processo Vuoto, però; che è come un abisso: dove tutto si perde e tutto si nullifica. Un abisso così, merita persino un nome. Chiamiamolo: Abisso Italia.