Il Grillo ‘papà’ non è il Grillo peggiore
Diritto e libertà
Nel garantismo familiare di Beppe Grillo si deve certo rilevare la contraddizione grottesca tra la sua sollecitudine paterna e il suo disprezzo per i figli o i padri altrui, sempre da impiccare sulla pubblica piazza al primo avviso di garanzia. Né si può cogliere un segno, magari tardivo, di resipiscenza: solo un cretino o un disonesto – e Grillo è talentuosamente entrambe le cose, in misura variabile e non sempre consapevole – può sostenere che anche gli inquirenti siano persuasi dell’innocenza dell’indagato, non avendolo preventivamente sbattuto in galera. Non tutti i magistrati, per fortuna, hanno l’idea che le sbarre di una cella siano l’incubatore necessario di un’indagine, a differenza di Grillo (e, purtroppo, di molti altri magistrati).
Però il monologo Facebook che la stampa italiana (con poche eccezioni) ha censurato, per un riflesso altrettanto conformistico, come un oltraggio alla magistratura e una grave mancanza di rispetto verso gli inquirenti e verso la ragazza che ha denunciato la violenza sessuale, è la cosa più “normale” e rispettabile che il capobanda dei 5 Stelle abbia mai detto in materia di giustizia negli ultimi decenni. Non solo la più giustificata dall’angoscia del padre per l’accusa, ritenuta ingiusta, al figlio, ma anche la più somigliante alla normalità dell’esperienza della giustizia penale per chiunque sia sinceramente persuaso dell’innocenza di un indagato o di un imputato.
In questi giorni, una importante dirigente pubblica ha tentato il suicidio dopo un’accusa di corruzione, mentre i cani dell’apparato mediatico-giudiziario già latravano verso una preda così succulenta. La scoperta di come la giustizia penale possa apparire una irreparabile china di morte agli occhi di un sospettato, di un accusato e a volte semplicemente di un testimone – in un paese in cui i processi assolvono impropriamente a una funzione redistributiva di ragioni e torti politici, di meriti e di infamia civile – potrebbe essere per Grillo anche una scoperta politicamente illuminante, se il guru della ghigliottina permanente avesse ancora gli occhi per vedere il disastro culturale di cui è stato insieme artefice e beneficiario.
Ieri però non è stato Grillo a dare il peggio di sé – l’aveva già dato. E la scena del padre indignato e disperato non l’ha riscattato, ma non ne ha neppure aggravato la sua responsabilità civile, che attiene ai tempi in cui anche la stampa perbene salutava con sorpresa, ammirazione e eccitatissimo entusiasmo la “novità” della fantastica ascesa al cielo della politica di questo luddista digitale, della sua futurologia post-democratica e della sua giustizia prêt-à-porter, perfettamente suggellata dall’intronazione di Fofò Dj ai vertici del Ministero di Via Arenula.
Il paradosso è che il disastro culturale della giustizia italiana oggi è più nelle parole di chi accusa il Grillo politico, che in quelle di accusa del Grillo padre. Se uno contesta un’indagine, i suoi esiti, le sue conclusioni, le sue richieste è, per ciò stesso, un eversore, un bestemmiatore di quel verbo obbligatorio, di quella verità di Stato, di quel principio di obbedienza universale, che in Italia si chiama ipocritamente “fiducia nella magistratura”.
E se è evidente che nel protestare l’innocenza del figlio da parte di Grillo padre c’è anche l’eco del più tradizionale familismo italiano, nella protesta contro l’attacco alla magistratura e alle ragioni della vittima da parte del guru-papà c’è l’eco del più tradizionale grillismo politico-giudiziario, cioè della classificazione della opposizione alle richieste dei pm come un oltraggio alla “verità” e un'ulteriore violenza contro le presunte vittime del reato. Se Grillo tiene famiglia, molti suoi accusatori non tengono vergogna.