logo editorialeIl 41-bis dovrebbe servire per isolare i mafiosi più pericolosi, invece serve per produrre pentimenti anche in coloro i quali mafiosi non sono, né mai saranno dimostrati essere, ma sono utili alla dimostrazione della mafiosità altrui. Il carcere preventivo dovrebbe impedire ai presunti colpevoli di fuggire, di tornare a delinquere o a inquinare le prove e invece serve a produrre patteggiamenti, a dimostrazione della fondatezza dell'impianto accusatorio, chiesti da chi sta in galera prima della pena senza più potere delinquere, né fuggire, né inquinare alcunché.

Sia in un caso che nell'altro, dietro a questi successi - tanti pentimenti, tanti patteggiamenti - c'è un'idea del sistema penale in cui l'efficienza non ha praticamente più nulla a che fare con la giustizia, come saremmo abituati a pensare sulla base dei principi della buona logica e retorica costituzionale. Sarà giusto o sarà sbagliato, ma è un fatto. Che il sistema penale si emancipi dalle proprie regole per far valere le proprie (anche nobilissime) ragioni sostanziali è un rischio che in Italia neppure gli addetti ai lavori avvertono come tale; semmai lo considerano una ragionevole adeguazione del mezzo al fine, dettata dalla necessità.

Il caso di Galan è un caso da manuale di questa fenomenologia della giustizia. Mesi di carcere preventivo, se non inflitti certamente subìti come una crudele pena corporale da un politico potentissimo, e quindi fragilissimo, impreparato a vivere la galera come un incerto del mestiere o una tappa del cursus honorum criminale. E alla fine, inevitabile, la resa.

Le probabilità che un carcerato così (come Galan, come me, come il 99,9% degli italiani) rinunci a barattare la salute con la pretesa di innocenza (per conservare la prima lascio la seconda) e dunque a cedere all'accusa sono puramente teoriche, un'ipotesi statistica o accademica. Non superiori a quelle per cui la vittima di qualunque prigionia, anche extralegale, preferirebbe rinunciare al tradimento di se stesso e anche della verità, piuttosto che tornare indegnamente libero accusandosi e accusando tutti di tutto.

Ovviamente parlo del caso Galan e non delle responsabilità di Galan, che dai materiali d'indagine, se non apparivano ovviamente "provate" (perché non c'è prova senza processo), neppure sembravano (agli occhi di chi scrive, almeno) contestate dalla Procura in modo arbitrario e persecutorio. Ma il fatto è che la partita della verità giudiziaria, che è complessa, non si può giocare ad armi pari se è impari la condizione di gioco e l'incentivo psico-fisico e non solo giuridico a stare o uscire dal gioco.

La riflessione su questa giustizia, che essendo esemplare è popolarissima (come sono state sempre le peggiori giustizie nella storia dell'umanità) dovrebbe ripartire dalle riserve di Beccaria sull'efficacia della tortura ai fini di giustizia e sull'illusione che "il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti".

Certo, però, sarebbe un discorso lungo. Incompatibile, quindi, con una giustizia che va per le spicce.

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