La "macelleria messicana" della Diaz, come tutti i casi in cui violenza, abusi di potere e coperture politiche confondono i confini tra lo Stato e l'anti-Stato, era destinata a finire nel calderone dello scandalismo politico e della retorica cospiratoria, che, da Piazza Fontana in poi, non ha consentito all'Italia di fare un solo passo nella direzione della verità sugli episodi più oscuri della sua storia, ma ha offerto una panoplia di pretesti per ogni accusa e ritorsione contro i (presunti) responsabili politici dei fatti.

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Puntualmente, dopo la condanna da parte della Corte di Strasburgo è ripartita la solita manfrina, che per eludere la questione della colpa - e della responsabilità di porvi, almeno per il futuro, rimedio - si affanna alla ricerca del colpevole perfetto da sacrificare all'indignazione popolare e della misura esemplare da far valere come prova della riconquistata innocenza.

Il calcio dell'asino che Orfini ha assestato a De Gennaro appartiene al repertorio di questi eroismi postumi, di cui i politici italiani - e quelli di scuola togliattiana in massimo grado - sono inarrivabili specialisti. Ma in un paese in cui la misura di tutte le cose (e le responsabilità) politiche sembra diventata quella giudiziaria - della giustizia domestica, come di quella internazionale - la questione dei fatti di Genova ha riaperto il derby tra innocentisti e colpevolisti.

Così a rispondere a Orfini è accorso quella sorta di Bertolaso della legalità - di protettore civile per eccellenza della giustizia e del diritto - che è diventato, forse pure suo malgrado, Raffaele Cantone, il quale nega qualunque responsabilità dell'allora capo della polizia ricordandone l'assoluzione in giudizio, che però è, in questo caso, letteralmente un parlar d'altro, dovendo i funzionari dello Stato rispondere oggettivamente degli effetti del proprio operato, non solo della eventuale rilevanza penale delle proprie, chiamiamole così, opere e omissioni.

Gli stessi equivoci che rendono "impreferibili" tanto l'accusa di Orfini, quanto la difesa di Cantone, rendono incomprensibile lo stallo sulla legge contro la tortura, diventato da reato proprio reato comune, e prima della condanna di Strasburgo indebolito e spiaggiato alla Camera dei Deputati, dopo l'approvazione del Senato. Si sostiene da più parti che dietro i ritardi e le resistenze ci sia l'opposizione delle forze dell'ordine, che vedono in quella legge un fattore di delegittimazione sociale analoga a quello che i magistrati denunciarono sulla responsabilità civile.

Purtroppo è molto più radicale e politicamente trasversale la ragione della resistenza all'introduzione nel codice penale di un delitto, per cui sia punito chi infligge sofferenze fisiche e psichiche a una persona privata della libertà per ottenerne la "collaborazione" (delazioni, confessioni, chiamate di correo...) o per ricavarne quella di terzi. Una legge sulla tortura ben fatta finirebbe per incrociare non solo i casi abnormi di "violenza di Stato", ma l'ordinario funzionamento del nostro sistema penale, dall'abuso delle misure cautelari, alla gestione dell'ordine penitenziario, fino al 41 bis. Tutti temi che, come i fatti della Diaz, sono finiti da tempo sul tavolo della Corte di Strasburgo.

Finché dunque si vorrà fare una legge sulla tortura congegnata per punire esemplarmente i poliziotti "fascisti" e maneschi, l'unica alternativa possibile è tra nessuna legge e una legge sbagliata e inutile, se non per le professioni di "antifascismo" a buon mercato.

@carmelopalma