Le vittime della pace. Per le ragazze afghane le scuole non sono state riaperte
Diritto e libertà
Tra le classi dirigenti dei paesi occidentali, lo scandalo per la mancata riapertura delle scuole di istruzione secondaria per le ragazze afghane, decisa dal regime talebano, è un puro esercizio di buona coscienza a buon mercato. La lamentazione circa il voltafaccia dei mullah, che avrebbero contraddetto un impegno solennemente preso dopo il “tutti a casa” degli Usa e dei loro alleati, è fondata sulla conveniente menzogna che l’accordo fosse davvero assistito da un effettivo dispositivo di garanzia. Non è così.
Questa discriminazione non è la sola e forse neppure la più umiliante a cui sono sottoposte le bambine, le ragazze e le donne di un paese riconsegnato al tribalismo maschilista dei talebani. Non hanno il diritto di studiare, perché non hanno neppure il diritto di esistere. Probabilmente l’esclusione dall’istruzione non è neppure il più irreversibile dei problemi ed è possibile che venga almeno in parte risolto, continuando però a trattare bambine e ragazze come ostaggi, nelle trattative interne al regime talebano o per strappare concessioni dalla comunità internazionale.
Anche questo episodio, se non altro per la coincidenza temporale, richiama le discussioni di questi giorni sul rapporto tra pace e libertà, tra uso di strumenti bellici e tutela dei diritti fondamentali.
Dal punto di vista strategico le bambine e le ragazze afghane sono state consapevolmente sacrificate in base a un calcolo che, pur ammantato di ideologia pacifista, ha cinicamente concluso che il prezzo della loro cattività civile fosse inferiore a quello che Usa e alleati avrebbero dovuto pagare per continuare a farle andare a scuola. Il pacifismo assoluto, cioè privo di relazione e responsabilità per le conseguenze della “pace”, è sempre – non solo in questo caso – una giustificazione ideologica, stolida o corriva, volontaria o involontaria, del principio di sopraffazione. Si chiama pace lo stato di fatto determinato dalla violenza e l’astensione dall’uso di armi e strumentazioni belliche, anche a fini puramente difensivi, diventa un'autorizzazione implicita all’offesa dei più deboli.
Il caso afghano è particolarmente eclatante perché non si trattava neppure di una “guerra”, nel senso di un intervento militare contro un altro Paese o a sostegno di una sua parte, nel contesto di una guerra civile, ma di un'assistenza militare permanente ad autorità locali fragili e non autosufficienti, per assicurare alla popolazione condizioni minime di vita e di diritto, che il ritorno dei talebani avrebbe – e tutti lo sapevano – immediatamente cancellato. Prima che Usa e alleati tornassero a casa non c’era nessuna guerra: c’erano mezzi e personale militare straniero al servizio della (molto relativa) libertà degli afghani e delle afghane. I militari alleati semplicemente sostenevano e, più spesso, surrogavano lo stato afghano.
Ovviamente, non sta scritto da nessuna parte che paesi lontani debbano sacrificare le proprie risorse e le proprie donne e i propri uomini per raddrizzare il corso della storia di un paese arretrato e disgraziato, che si ritenga, a torto o a ragione, ininfluente continuare a presidiare militarmente. Inoltre è decisamente irenistica e parassitaria la pretesa che i paesi liberi paghino per principio per la libertà politica di paesi e popoli, che non sembrano averne chiara né la nozione, né l’utilità. Il modo in cui le istituzioni afghane si sono liquefatte e consegnate ai talebani, in teoria molto meno armati dell’esercito regolare, è un ottimo argomento a sostegno di chi sostiene che rimanere ancora a lungo a Kabul non sarebbe comunque servito a niente e quindi tanto valeva che la rogna afghana se la tornassero subito a grattare solo i russi e i cinesi.
D’altra parte, si potrebbe al contrario riflettere sul fatto – lo accenniamo appena – che in una fase della storia in cui la libertà politica non procede, ma retrocede e tendono a globalizzarsi alternative politiche illiberali di diversa foggia, lasciare ovunque il campo al nemico e rifugiarsi nella cittadella assediata del mondo euro-americano non è detto che sia la scelta realisticamente più propizia e conveniente.
In ogni caso, la segregazione sessuale delle afghane è una conseguenza della “pace” che abbiamo voluto e salutato, generalmente, come un successo o addirittura come una riparazione all’oltraggio di avere “fatto la guerra”. E come minimo permette di concludere che la “pace” non è necessariamente la soluzione preferibile, in termini di giustizia.