donna con burqua grande

Sia l’ansia di cui facciamo mostra per le donne afgane, sia la noncuranza di cui è accusato chi non vi si associa, dicono una cosa che non si dice: e cioè che il destino di quelle poverette ci rinfaccia un problema nostro, un problema che abbiamo qui. Quell’ansia, pur giusta e genuina, insorge presso le nostre delicate sensibilità perché la violenza sulla femmina afgana realizza in modo scrupoloso e feroce una legge che persiste profondamente anche da noi non ostante la revoca formale che ne abbiamo fatto con le nostre normative anti-discriminatorie: perché il principio occidentale di parità, più o meno efficacemente presidiato da regolamentazioni rivolte ad assicurarne l’attuazione, è meno solido, meno condiviso, più esposto alla violazione e alla destituzione di fatto, rispetto al pregiudizio che qui, non tra quei sassi asiatici, la società ancora coltiva verso la donna e ad essa si impone con una violenza non più giustificabile solo perché non trionfa nell’orrore della lapidazione.

Si risponderà che qui le donne votano, studiano, vanno in giro come vogliono e via di questo passo. Ma non è questo il punto. Qui si discute della mozione psicologica di quell’ansia e della temperie culturale che genera la preoccupazione per la sorte di quelle donne, tra l’altro non diversa a paragone di quella che tocca alle loro simili in altri sistemi oppressivi. E se di quell’apprensione ho appena detto, e delle ragioni che la determinano (non l’orrore per quel che succede là, ma orrore perché quel che succede là è una manifestazione esemplare ed estrema di un’impostazione vigente anche qui), dico ora che anche la noncuranza dirimpettaia, comprensibilmente destinataria di riprovazione da parte di chi reclama la necessità di fare qualcosa per quelle disgraziate, condivide a ben guardare la stessa motivazione: lo scempio che sta per farsi, che si sta già facendo di quelle nostre sorelle, così come quello che prima del contenimento occidentale già se ne faceva, non eccita indignazioni altrimenti quotidiane perché l’affettazione femminista è carica di una colpa ben più grave rispetto a quella che facilmente ad essa si imputa, cioè di mobilitarsi per il provino sul sofà ma non per le bambine bengalesi (appunto: non a Kabul) impiccate dopo lo stupro.

E la colpa più grave è questa: che se quel che succede là non è qui risentito gravemente è perché la parte noncurante dell’Occidente in realtà vi si riconosce, e ad essa rimanda un profilo solo più arcaico, una modalità semplicemente più arretrata delle medesima pratica sopraffattoria. Nei due casi (quello del fervore solidale e protettivo, da un lato, e quello della testa girata altrove, dall’altro lato) è la percezione di quel che ancora siamo a determinarci: ora la vergogna per quel che siamo, ora l’assuefazione a quel che siamo. È in questo senso più profondo e meno confortevole che occorrerebbe dirsi che quel che succede là ci riguarda: perché è una violenza solo gradata, e che non si emenda nel diritto alla patente, quella che diffusamente è ancora esercitata da una parte del genere umano verso l’altra. E la verità è questa: che se ancora è possibile che le donne siano trattate in quel modo laggiù, è perché ancora qui persiste la tenue, accettabile e sostanzialmente legittimata discriminazione cui ancora le sottoponiamo.