ultimo americano Kabul grande

Alla domanda che accompagna da anni la ricorrenza funesta – “Dov’eri tu l’11 settembre?” – andrebbe contrapposta la domanda su dove tutti siamo oggi, venti 11 settembre dopo. E qui non si tratta di ricordare, ma di (volere) capire.

La macchina del tempo dell’Occidente ci ha portato molto più indietro del punto in cui gli aerei sulle Twin Towers ci avevano fermati – alla scoperta che la storia non era finita e che ricominciava proprio contro l’Occidente trionfante – e anche più indietro di dove il nichilismo orante dei jihādisti avrebbe voluto inchiodarci, nella guerriglia quotidiana contro i soldati di Dio pronti a seminare la morte tra gli infedeli.

Ma se la minaccia di Al Qaeda e poi dell’Isis e di tutte le sigle dell’internazionale del terrore era mortale, non era una minaccia di conquista, né un viatico di capitolazione. Malgrado le ambizioni dei manovratori degli aspiranti suicidi reclutati nelle banlieue europee e nelle periferie della frustrazione islamica, non c’è mai stato il pericolo che la bandiera nera sventolasse in piazza San Pietro o sulla Casa Bianca e che un Osama violasse la sovranità occidentale e usurpasse, di fatto o di diritto, lo scettro di un governante europeo o americano.

La sicurezza, sì, era stata profanata l’11 settembre e sarebbe tornata a esserlo dall’una e dall’altra parte dell’Atlantico, anche se in modo non così numericamente mostruoso. Ma la sovranità non è mai stata violata, anzi nella guerra al terrorismo aveva trovato una sua misura idealmente universalistica e forzosamente multilaterale. Insomma, un'idea molto occidentale di sè.

Vent’anni dopo, non certo perché piegata dal terrorismo islamista, è proprio quella sovranità a essere in crisi, con il suo concetto, i suoi caratteri e la sua stessa realtà storica. L’Occidente è sempre più sparso, diviso da sospetti e inimicizie suicide e sempre meno consapevole che ci sia qualcosa come un “modello occidentale”, cui si leghi la sua fortuna economica, libertà politica e sicurezza strategica.

Il successo nazionalista, anche nelle sue forme più paranoiche e malate, sull’una e sull’altra sponda dell’Oceano, è una minaccia molto più forte alla stabilità delle istituzioni democratiche e alla pace “interna” dell’ex Primo Mondo di quella che fu rappresentata vent’anni fa dagli aerei dirottati dagli uomini di Bin Laden. La penetrazione ideologica russa e cinese nel cuore e nella testa di milioni di europei, mentre procede l’accerchiamento geografico e la pressione militare di Mosca e di Pechino fin sulle sponde del Mediterraneo, è un fenomeno talmente pazzesco da sembrare irreale.

Il ritiro dell’Afghanistan, fatto così, subito così e vissuto così è la prova di una sconfitta che non si è consumata tra le montagne intorno a Kabul, ma nelle capitali occidentali e nella loro opinione pubblica, sempre meno disponibile a pagare prezzi per imprese di cui non intende più neppure il senso e il guadagno.

Quella sorta di 8 settembre planetario con cui l’Occidente ha riconsegnato Kabul ai talebani, con tutto quello che comporta e che significa, con tutto quello che l’ha determinato e che determinerà, rischia di essere una ferita all’anima dell’Occidente molto più profonda e inguaribile delle Twin Towers, dalla cui rovine per lo meno emerse un mondo libero con una risvegliata coscienza di sé, dei propri diritti e dei propri doveri. La fuga da Kabul è solo una delle tappe della fuga dell’Occidente da se stesso.