La mitografia politica maradoniana, che noia
Diritto e libertà
Con la morte de la Mano de Dios, la mitografia maradoniana ha avuto purtroppo il più prevedibile e stucchevole degli esiti. Lasciamo ovviamente da parte la considerazione sulla grandezza di quel calciatore che la devozione popolare aveva decretato essere “megl'e Pelé” e che il destino e il desiderio aveva portato da un poverissimo barrio argentino al vicereame sportivo di una città spiritualmente sgarrupata, come Napoli, che non vedeva l’ora di identificarsi in un personaggio che non ne avrebbe affatto garantito il riscatto, ma ne avrebbe almeno vendicato la perdurante minorità economica e sociale con una grandezza sportiva assoluta, quella dello Scudetto e non solo.
Lasciamo anche da parte i caratteri intimi, di cui non sapremmo dire, e personali, molto evidenti, di un uomo perennemente in fuga da un demone che lo ha sempre riacchiappato e dal suo doppio destino di predestinato: all’eccellenza artistico-sportiva e all’autodistruzione.
Dei tanti volti di Maradona – ed è stato davvero tante cose, elevandosi all’altezza della tragedia e abbassandosi alla mediocrità della miseria, come tutti i personaggi archetipici – il più farlocco è sicuramente quello politico del “nemico dei poteri forti” e del campione "di tutti i diseredati del mondo", maschere che ha probabilmente indossato per necessità, per ammantare di un velo eroico una vita di cadute e presentarsi come vittima designata di disegni orditi ai suoi danni e a quelli del popolo, che alla causa maradoniana si era votato con un sentimento ampiamente extra-calcistico e extra-sportivo. Come a un dio vendicatore, appunto.
Da molti punti di vista Napoli e Maradona si sono assomigliati e quindi è inevitabile che si siano “pigliati”. Due simboli di una grandezza senza pace e senza redenzione, di una bellezza pura e corrotta nella propria stessa radice, di una perenne insoddisfazione e incapacità di essere ciò che si potrebbe essere, senza una insensata dissipazione di sé, uno sciupio mostruoso eppure inevitabile.
Gli elementi più accessori e posticci della biografia maradoniana però sono proprio i più edificanti e “politici”. La passione per i poveri, la gentilezza con i compagni di squadra beneficiati della comprensione di un alieno che non li ha mai fatti sentire inferiori, il gusto per i gesti esemplari, come quella partita giocata nel fango di un campetto di periferia per beneficienza, fino alla vendetta consumata contro l’Inghilterra a pochi anni dalla vergogna della Falkland e l’amicizia con Chavez e Castro.
Maradona non è stato Maradona per il tatuaggio del Che, per il suo qualunquismo peronista e per il suo conformismo “sudamericanista” (avrebbe fatto notizia, semmai, il contrario). Né questi caratteri sono quelli che ne hanno fatto un eroe tanto partenopeo e argentino, quanto universale. Maradona è diventato Maradona perché era Maradona, il divino sgorbio di cui scriveva Gianni Brera, il calciatore che sovvertiva le leggi della fisica e che faceva cose che con quel corpo, con quel peso, con quella malattia perenne, con quell’angoscia che lo divorava era impossibile che potesse fare, eppure portava a compimento con una facilità irridente e una sorta di allegria risarcitoria.
Come sportivo (a suo modo) è già stato abbastanza “tanto” perché la sua memoria abbia bisogno di ulteriori fasti. Farne una sorta di Gino Bartali, un Giusto dello sport, un militante proto-francescano (nel senso papale) consumato dall'ansia di giustizia, un uomo e non solo una mano di Dio, è davvero una caricatura. E la mitografia politica maradoniana è una noia, a differenza di quella calcistica, che è una miniera di lampi e di stupori.