mancini grande

“Ho fatto la storia in Europa, adesso è il momento di farla qui”.

Chi è? Un ipotetico Napoleone, già Imperatore, che va in Egitto dopo Austerlitz, anziché, prima, da semplice Generale? No. Roberto Mancini che, in carne ed ossa, assume il ruolo di “Head Coach della National Team” arabo-saudita.

Non possiamo certo pretendere misura ed equilibrio, e nemmeno lessico elementare, da chi ha ricevuto una proposta di quell’ordine di grandezza economica. Un qualche capogiro viene, e dobbiamo essere indulgenti (sia detto senza ombra di ironia).
O magari sa, il fu Commissario Tecnico italiano, che è una storia consueta, e già un po’ consunta, ma si sta dicendo che quelle cifre valgono bene un numero da uomo-cannone e gioca a lanciarsi e a farsi lanciare nell’inafferrabile spazio dell’iperbolico, del roboante: che stordisce e inibisce. No problem. Viviamo da più di due secoli nel mondo creato sul Valore Contrattuale, e non è nemmeno da sfiorare la questione del denaro che compra tutto. Si capisce. E non è un male in sé.

Prima dell’Ordine Borghese, c’era l’Ancient Regime, dove l’unica regola era lo status nativo, e la sua tendenziale immodificabilità; prima ancora, il Feudalesimo, ancora più ingessato. Difficile che il figlio di un falegname di Jesi, già emigrato in Svizzera e in Germania, tornato a condurre la vita agra di molti nel dopoguerra, senza la grazia emancipatrice di quello che il grande giurista Pietro Rescigno chiamò “il movimento storico dallo Status al Contratto”, potesse, nel giro di trent’anni, attingere fasti principeschi. Si chiama ascesa sociale ed è una delle acquisizioni più preziose del tempo contemporaneo.

Però, però, però…potrebbe suggerire Federico De Roberto (cui era caro questo vezzoso accorgimento argomentativo).

Il peggio, lo scarto mediocre, il politicismo naturale più deteriore, è stato non assumere responsabilità alcuna dopo il naufragio sulle qualificazioni a Qatar 2022. Cioè, per una mediocrissima resa nel compito affidato (dichiarò essere “la più grande delusione” della sua vita, mettendola unicamente in conto alla “fortuna trasformata in sfortuna”). Ecco il punto. Il primo punto. Mancini si è tenuto la casacca (che era una specie di Bandiera), per giocarsela da solo. In termini umani, e morali (se si può), non sarebbe cambiato nulla se a Riad, anziché le note cifre, lo avessero atteso due lire.

Perciò, lo spot para-napoleonico è la meno cosa. D’altra parte, andrebbe pure rammentato, che inchiodato al ruolo divenuto fallimentare poté rimanere anche per il concorso della stessa FIGC e della sua dirigenza tutta. Rifondiamo, rifacciamo, rilanciamo, rivinciamo. Vabbè.

Però (eh sì), a ciascuno il suo giudizio (“suum cuique tribuere”, detto da chi se ne intese: e non si ricorre al latino per una immedicabile insania sociopatica, né per sfoggio di cultura, peraltro molto modesta, ma perché, chiosava una teologa non effimera quale Adriana Zarri, “il latino attesta l’antichità e l’autorevolezza di un assioma”).

E non c’è dubbio che oggi la faccenda riguardi in primo luogo Mancini (in ogni caso, una colpa corale può attenuare, ma non escludere, quella di ognuno). Il quale si è mosso in modo pedestre mica per niente: perché alludere a “problemi personali”, se si trattava dei buoni vecchi schei? Perché avere accettato di rifondare, di rifare ecc., dopo la bancarotta Qatar, era l’unico modo decente di restare al comando: unica alternativa, altrettanto decente, le dimissioni. Ecco perché. Si era impegnato a sostituire una cambiale scaduta con una nuova, ma questa è finita nel cestino.

Non consideriamo nemmeno per un secondo che “non tutta la colpa è del C.T.”. Rilievo cretino, se mai ci fosse, in quanto ovvio. Certo che non lo è: ma il C.T. è un Capo, un Top Manager, corredato di tutti i congrui e legittimi annessi e connessi: potere di scegliere, di modificare, di convocare, di estromettere, di cazziare, di lodare, e così via; e munificenze in conformità ad una baracca fastosamente addobbata (qual è il Football&Co di oggi, importantissimo Soft Power). Onori, oneri.

Così Mancini-Napoleone IV, ha reso personalmente fruttifero un danno collettivo; questo, il secondo e collegato punto. Essersi condotto, si diceva, secondo la più navigata demagogia: lustrare (e “lustra” significa anche “apparenza, simulazione”: ma tu vedi, alle volte, le parole…) giacca e distintivo, per presentarsi rivestito delle sole e antiche insegne vittoriose, netto di sconfitte e oneri inadempiuti, al sempre possibile appuntamento con la storia (eccola lì: A chi la vittoria? A me!).

Meno che mai, infine, gli chiederemmo (impiccandolo malignamente a quella belluria del “adesso farò la storia qui”) di trasformarsi in una controfigura di Lawrence d’Arabia; e di covare il riscatto dei molti “fuorigioco” civili tutt’ora aventi corso legale a Riad: magari, visto che non pensiamo di sicuro sia, né vada “trattato come il Mostro di Firenze, sí, proprio Pacciani” (ha detto pure questo), due parole, uno starnutino, una smorfietta, per auspicare, dirsi confidente che, dal calcio occidentale (?) muoverà questo e quell’altro, verranno a stupirci (peraltro, tre anni fa, le donne sono state ammesse negli stadi, e l’anno scorso è stata costituita la squadra di calcio femminile: sicché, non è detto che volerebbero le sciabole, casomai).

Così, per ora ci resta solo da apprendere una lezione tristemente italiana, di un tempo tristissimo. Dove sembra si faccia di tutto per distruggere tutto quello che serve per reggere tutto: la parola data, l’irrinunciabile valore attribuito al proprio nome, il domani dopo l’oggi, e il dopodomani dopo il domani. Cioè, il legame e l’onere del legame fra le generazioni.

Con il just in time etico, politico e culturale, dopo Dio, moriamo pure noi. E non ci sarà nemmeno un Nietzsche a rimpiangerci.