Castro è morto postumo. Non era più lui il vero 'pericolo comunista'
Istituzioni ed economia
Fidel Castro è morto postumo. Della mitologia della Revolución sopravvivono lacerti iconografici e commozioni e rimpianti in una generazione che se ne era innamorata da giovane e non è riuscita a liberarsene da vecchia, neppure di fronte all’esperienza del fallimento e di un distacco già politicamente consumato. Quanti, tra quelli che fuori da Cuba e da alcune ristrette periferie politiche sudamericane piangono Castro, possono dirsi oggi 'castristi'?
Della Revolución – cioè del tentativo di sfidare dal cuore dell’America capitalista lo spirito del capitalismo americano e la sua egemonia politica sul continente – è rimasto ben poco anche a Cuba, riacciuffata saggiamente da Obama e Bergoglio, con la fine delle sanzioni, da un isolamento claustrofobico e soffocante e quindi politicamente tossico. E anche il Paese più seriamente castrista del Sudamerica, più della Cuba di Raul Castro, cioè il Venezuela bolivariano di Chavez e ora di Maduro, pur galleggiando sul petrolio, è ormai ridotto allo stremo.
Cuba ha voluto rimanere troppo a lungo, pur dopo la fine dell’Urss, un Paese paranoicamente “sovietico” e ottusamente novecentesco nel modo di intendere e interpretare la sfida con il mondo capitalista. E i suoi epigoni sono finiti nel cul de sac dell’anacronismo castrista. Ma quello di Cuba non è l’unico modo in cui il comunismo è finito e, guardando alle prospettive di lungo periodo del modello politico euro-occidentale, non è né il più minaccioso, né il più sinistro.
Lasciamo pure da parte la “Silovikicrazia” ideologicamente reazionaria della Russia post-comunista, che reagisce al fallimento economico con una politica di potenza e ingerenza politico-militare potenzialmente distruttiva degli equilibri europei. Ne abbiamo scritto molto su Strade, e torneremo a scriverne, denunciando l’evidente minaccia di un regime che liquida la società aperta come una società “degenerata” e incompatibile con i presupposti dell’ordine politico naturale: lo stato nazionale, la tradizione religiosa, la prevalenza della sicurezza collettiva sulla libertà individuale, l’etica del nemico come unico fattore di coesione civile.
Se si guarda a due Paesi simbolo di una resistenza che, come Cuba, avevano sedotto le masse occidentali anti-imperialiste insospettite dall’ortodossia sovietica – la Cina e il Vietnam – si coglie un’evidente differenza. La trasmutazione ideologica dei Paesi che oggi, senza rinunciare alla storica denominazione d’origine comunista, giocano un ruolo decisivo negli equilibri del capitalismo e dell’ordine strategico globale è stata di segno uguale e contrario all’involuzione a cui la fedeltà alla Revolución ha condannato Cuba.
D’altra parte, proprio il successo dei “comunismi di mercato”, cioè dei modelli ibridi che conculcano le libertà politiche e civili senza mortificare l’iniziativa economica privata, chiarisce che, se oggi c’è ancora, sia pure sui generis, un pericolo comunista, questo non viene da una Cuba affamata e derelitta, ma da regimi che sacrificano il pluralismo politico e i diritti umani individuali preservando un invidiabile livello di crescita economica e tecnologica e vedono svilupparsi – sia pure a spese di un pezzo di società segregata in condizioni di vera e propria cattività civile – una classe media e un ceto imprenditoriale sempre più produttivi ed evoluti nei gusti e nelle abitudini di consumo e quindi sempre più preziosi per i prodotti e i mercati dell’ex Primo Mondo.
Da molti punti di vista, Cuba è stata un sogno per l’Occidente di opposizione, ma non è stata un enigma per le classi dirigenti euro-occidentali. Il suo programma – malgrado i risultati rivendicati sul fronte della tutela della salute e della diffusione dell’istruzione – si è schiantato contro il muro della realtà e delle analisi che ne preconizzavano il fallimento.
Al contrario, la Repubblica Popolare Cinese delle “quattro modernizzazioni” (1978) di Deng e la Repubblica Socialista del Vietnam dopo il Doi Moi (1986) rimangono un enigma inquietante, perché smentiscono l’idea che con ingenua fiducia storicista il mondo liberale nel cuore della Guerra Fredda ha coltivato e per decenni confidentemente difeso: quella dell’indivisibilità ontologica tra democrazia e capitalismo, tra evoluzione economica e modernizzazione civile, tra gli spiriti animali del capitalismo e l’emancipazione della società civile e dei suoi protagonisti dai voleri e dal controllo del “sovrano”.
Ci eravamo abituati a credere che il capitalismo fosse nato dalla rivolta della borghesia al potere assoluto; non ci capacitiamo che possa diventare il prodotto di un potere assoluto, cui sia risparmiato – con le buone o con le cattive – il costo politico del “disordine” democratico. Dall’Asia arriva un modello da esportazione che coniuga, in maniera al momento efficiente, alti tassi di sviluppo e altissimi tassi di coercizione, un alto grado di internazionalizzazione e di integrazione economica e la persistenza di una “verticale di potere” priva di qualunque sistema di checks and balances a garanzia della libertà e dell’autonomia di cittadini, produttori e investitori, nazionali e stranieri.
Sono, questi, Paesi comunisti che non vogliono distruggere, ma “mangiare” il capitalismo, sradicandolo dalla sua matrice culturalmente liberal-democratica. Non predicano la socializzazione dei mezzi di produzione, ma la statalizzazione del sistema di comando e controllo dei processi economici, con risultati – ed è questo il problema – tutt’altro che disprezzabili.
Chi ha a cuore la difesa dell’ordine politico liberal-democratico ha insomma nemici ben più pericolosi dell’ultima vecchia icona di un comunismo arcaico, cui qualche milione di sessantenni o settantenni stanno tributando una lacrimuccia di commiato, in buona o cattiva coscienza.