Le minacce non sono tutte uguali e non basta una generica motivazione ideologica ad assimilare i casi e le vittime della violenza politica. Liliana Segre è il solo senatore a vita nominato dal Capo dello Stato (che non sia mai stato un esponente politico o una personalità di governo) a dovere girare, a 90 anni, scortata dai carabinieri. Non accade ai suoi colleghi Piano, Cattaneo e Rubbia. Matteo Salvini ha la scorta, come tutti i suoi predecessori al Viminale e come tutti i leader politici in carica.

Quando il segretario della Lega dice che “i cittadini sono tutti uguali” e quindi il caso della senatrice Segre non merita particolare né superiore scandalo, imbroglia le carte del discorso e riduce la violenza politica a una sorta di incidente atmosferico, un incerto del mestiere di chi accetta di non stare nascosto nel confortevole privato della propria casa e si avventura nella vita pubblica. Da molti punti di vista, Salvini ha ragione, nel senso che dà voce a un’opinione prevalente e diffusa, per cui nella contrapposizione tra politica e antipolitica, e tra Palazzo e Piazza, non si riconosce spazio né legittimità per ulteriori distinzioni.

Invece, è l’assoluta differenza con tutto il resto, con ogni altro movimento di Piazza e di Palazzo, a qualificare l’abnormità del "caso Segre". Anche l’antisemitismo di cui la senatrice Segre è vittima ha qualcosa di specifico e non di generico. Anche in questo caso, il tentativo di ridurre l’antisemitismo a una malattia di cui tutti i ceppi si riducono ad uno e si mischiano (quello islamista, quello “antisionista”, quello nazifascista, quello tradizionalista-cattolico) non aiuta a comprendere, ma a equivocare la natura insieme eccezionale e paradigmatica delle violenze minacciate contro la senatrice a vita.

Liliana Segre è stata alla fine della propria vita riacciuffata dallo stesso incubo da cui, poco più che bambina, era miracolosamente scampata oltre settanta anni fa. Lo ha visto riaffacciarsi, in forma ovviamente aggiornata, ma somigliante all’originale, proprio quando la sua nomina a Palazzo Madama, per meriti di testimonianza e di memoria, l’ha costretta a fare cronaca e non solo storia di quel male irredimibile incistato nell’anima italiana e europea.

La senatrice Segre è entrata in “zona pericolo”, perfettamente documentata dall’esplosione dell’odio digitale, quando ha onestamente aggiornato il suo impegno di martire dell’odio che fu a testimone all’odio che è, dove la matrice antisemita è imbastardita con altre forme di pensiero discriminatorio (sessuali, etniche e religiose), che se non sembrano centrali nella dottrina hitleriana, furono comunque tutt’altro che marginali nella macchina dello sterminio (i “triangoli” rosa, viola, bruno e azzurro dei lager nazisti).

Nel testimoniare come l’odio fanatico contro gli ebrei fosse e sia politicamente consustanziale ad altre forme di pregiudizio etico-etnico-religioso la senatrice Segre si è giocata la rispettabilità sociale presso mondi – quelli della destra nazionalista – che sanno perfettamente di dovere ancora pagare pegno rispetto alla pagina delle leggi razziali del ’38, ma ritengono di potere, ebrei a parte, esibire un pensiero politico apertamente razziale e dunque inevitabilmente razzista.

La senatrice Segre non è insomma finita nel mirino perché è ebrea, ma perché ha fatto qualcosa di politicamente molto più scandaloso che rivendicare la propria identità di ebrea perseguitata. Ha rivendicato l’esigenza di contrastare oggi il risorgente antisemitismo e le forme di odio politico, che all’antisemitismo sono apparentate.

La senatrice Segre ha messo il dito nella piaga riaperta di un passato che è già ritornato e che non può essere stoccato, con il suo carico di rifiuti tossici, nei magazzini di una (mai esistita) memoria condivisa. I veleni e i miasmi sono nuovamente tra di noi. La scelta di uno strumento come quello della Commissione di inchiesta, che rischia sempre di sfociare nell’arbitrio di una storiografia di comodo, ha offerto agli odiatori un paradossale alibi libertario. Ma non è l’astensione del centro-destra nel voto a Palazzo Madama la pietra dello scandalo.

Lo scandalo non è neppure il “negazionismo” dell’odio politico, ma il fatto che esso sia un fenomeno di massa e di potere e sia diventato senso comune, alimento della frustrazione e dell’invidia sociale. In una parola: pensiero dominante, anche se travestito da resistenza all’egemonia del politicamente corretto. È l’egemonia culturale dell’odio nelle democrazie occidentali il problema negato e il caso della senatrice Segre è il canarino nella miniera della democrazia italiana, il segnale d’allarme di un’aria che si è fatta irrespirabile.

@carmelopalma