Il Festival delle Scienze, che si è tenuto a Roma dal 23 al 26 gennaio, ha avuto quest'anno per tema il rapporto tra realtà e linguaggio. Federica Colonna ha seguito l'evento per Strade, con una serie di articoli che si conclude oggi. Qui, qui e qui i link alle puntate precedenti.

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«In teoria è possibile progettare una macchina con un set completo di risposte arbitrariamente selezionate per reagire ad ogni possibile input. La macchina può memorizzare ogni risposta. Ma questa è l'intelligenza di un tostapane!». Non è il Capitano William Adama, protagonista di Battlestar Galactica, serie tv sci-fi nella quale il genere umano si trova a combattere robot evoluti e ribelli, a parlare. È invece Stuart Shieber, docente di Computer Science alla Harvard University e ospite, insieme a Tomaso Poggio, direttore del Center for Brains, Minds and Machines del MIT, dell'incontro “Il linguaggio degli umani e quello delle macchine” al Festival delle Scienze di Roma.

Un soggetto, continua, è intelligente non quando ha una memoria infinita, pari, per esempio a quella che tutto l'Universo è in grado di contenere. Lo è, invece, quando «produce una sequenza di risposte verbali e creative a stimoli della stessa natura». In sostanza anche se, come spiega Shieber, ancora non disponiamo di una definizione chiara e completa di intelligenza, sappiamo riconoscere un essere intelligente: mostra di possedere un linguaggio creativo – prezioso rivelatore, come sostiene Chomsky, della natura umana – e supera il Turing Test. La prova, complessa, ideata da Alan Turing, matematico inglese, per verificare se si ha di fronte o meno un essere pensante e descritta dall'autore per la prima volta nel 1950, sulla rivista Mind.

«Immaginiamo il seguente gioco di società – ha spiegato il filosofo Gianni Rigamonti - in una stanza chiusa ci sono due giocatori, un uomo e una donna. In un'altra stanza c'è un terzo giocatore, che deve indovinare quale dei due, li conosce solo come A e B, è la donna, e l'unico modo che ha per farlo è mandare delle domande scritte e ricevere le risposte scritte; ma sia A, sia B devono far credere di essere la donna. Dopo un po' – continua – il terzo giocatore avrà a disposizione parecchi bigliettini di A e altrettanti di B. Troverà la soluzione giusta? È evidente che se il maschietto è sveglio, una volta liberato dagli impedimenti dell'aspetto fisico e dalla voce riuscirà a “imitare la femminilità” molto bene, e per il terzo giocatore le probabilità di sbagliare saranno uguali a quelle di indovinare». Cosa accade, però – e questa è l'idea chiave di Turing – se nella stanza al posto di un uomo e una donna ci sono invece un essere umano e una macchina? Entrambi con uno scopo: far credere di essere la persona. «Se la macchina fosse così brava da imitare l'umanità – spiega ancora Rigamonti – come non concludere che pensa? Infatti saprebbe riprodurre esattamente la manifestazione del pensiero».

Turing, quindi, per verificare l'umanità di chi risponde alle domande ha ideato un test del pensiero la cui complessità non è, almeno allo stato attuale, superabile da un computer o da una macchina. Finora, infatti, nessuno software ci è riuscito. Nemmeno Siri – il sistema che permette all'iPhone di riconoscere una sequenza vocale e di rispondere in maniera appropriata secondo lo slogan della casa produttrice “Your wish is its command” - il tuo desiderio è il suo comando.

«Turing è il mio idolo!», confessa, allora, Shieber, perché il suo test è il sistema migliore che tuttora abbiamo per verificare la differenza tra l'intelligenza artificiale e quella umana. Le domande formulate, infatti, sono in grado di analizzare competenze diverse: matematica, di gioco, poetica. Per rispondere a ciascuna sono necessari alcuni secondi di riflessione – un tempo che la macchina non concede quando conosce già la risposta a un quesito e che invece le è inutile quando non la sa – e la capacità di formulare frasi nuove e creative. Un esempio? Il test richiede anche di inventarsi in una manciata di attimi un sonetto inedito. Non solo, però, il Turing test è difficile e articolato. È anche cieco. Shieber lo paragona al talent show The Voice: a differenza di X Factor la giuria, mentre ascolta una performance, volta le spalle a chi canta. Non lo guarda. Perché non fonda la propria valutazione sulla visione, sulla predilezione di elementi diversi dalla competenza vocale. Così fa il test di Turing: non vede chi c'è davanti allo schermo, ma ne giudica la natura in base alla capacità di intelligenza.

Ma se il meccanismo ideato da Alan Turing vale oggi, cosa accadrà in futuro, con le macchine che stiamo inventando ora? Se Rigamonti sostiene che «con il tempo gli automi diventeranno abbastanza complessi da superare a pieni voti il test dell'imitazione. E le macchine penseranno», appare, invece, più scettico Tomaso Poggio. Secondo il professore, infatti, non esiste, ma non esisterà nemmeno presto, una  macchina in grado di produrre intelligenza nel modo in cui lo facciamo noi umani. Anche se la scienza e la tecnica hanno compiuto passi da gigante, per esempio nel campo della visione: «Una competenza tanto naturale nell'uomo – spiega Poggio – quanto complessa da riprodurre».

Però ci stiamo riuscendo, con gli occhiali OrCam per esempio, ideati dall'omonima start up e in grado di vedere un oggetto, memorizzare le informazioni che l'utilizzatore fornisce a riguardo, e ricordarle. Oppure con MobilEye tecnologia di visione applicabile alle auto, grazie alla quale le nostre comuni macchine diventeranno così abili da distinguere non solo oggetti fermi e in movimento, come un palo o una persona che attraversa, ma anche un pedone da un'altra auto. Per farlo, però, le macchine hanno bisogno di un lunghissimo training. «Serve una grande quantità di lavoro umano», spiega Poggio. Prima di capire come è fatta una macchina, infatti, l'intelligenza artificiale deve vederne migliaia: di ogni colore, forma, fattura. La sfida futura consiste proprio in questo: rendere un robot più smart, capace di comprendere prima, in meno tempo e con meno dispendio di energia umana.

Un po' come fanno i bambini. A loro, per capire cosa è e come è fatta una macchina, basta vederne un paio, e poi giocare con i modelli. Magari insieme, imparando dalla comunità, dagli altri, grazie alla capacità empatica. Un'altra competenza, insieme alla creatività, che distingue la natura umana dall'intelligenza artificiale. E che svela la nostra meravigliosa – e forse irripetibile - complessità.