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Credo che i dirigenti della Cgil siano i primi ad aspettarsi una bocciatura da parte della Consulta del quesito referendario abrogativo in materia di licenziamento individuale ('Abrogazione disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi'). Tutto lascia intendere che loro ci abbiano provato (coinvolgendo peraltro milioni di persone) allo scopo di mandare un segnale di protesta, di intraprendere una lotta che per qualche misteriosa ragione non si è svolta quando le leggi ora nel mirino referendario erano in discussione in Parlamento.

Pronti poi a prendersela – per finta - con i giudici della Corte se le cose andassero nel senso previsto. Ma se in Cgil non si aspettassero un giudizio di inammissibilità (per gli altri due referendum il discorso è diverso) non avrebbero formulato un quesito che sembra scritto apposta per non ottenere l’imprimatur (vedremo di seguito il perché). L’esperienza insegna, però, che il diavolo finisce sempre per mettere la coda laddove meno te lo aspetti.

Così, il prossimo 9 gennaio, ci può essere nel Collegio qualcuno(a) più realista del re che riesca a far passare il quesito. Nel qual caso c’è da augurarsi che abbia ragione Giuliano Poletti e che l’obbligo di fissare una data per il referendum (tra il 15 aprile e il 15 giugno) divenga un’occasione in più per andare ad elezioni anticipate rinviando di conseguenza l’insidiosa consultazione di un anno.

Certo, gli italiani hanno dato in altre circostanze prove di grande ragionevolezza, quando qualche ‘’bello spirito’’ raccolse le firme per estendere l’applicazione dell’articolo 18 dello statuto del 1970 anche alle piccole imprese. Infatti non si recarono alle urne. Ma questa volta sarebbe un referendum sulle politiche del lavoro del Governo Renzi. La partecipazione al voto assumerebbe un preciso significato politico e sarebbe trainata dalla campagna antivoucher in cui sono impegnati, senza risparmio, i media e i talk show.

Va da sé che un successo di questo quesito prefigurerebbe un vero e proprio atto di criminalità economica. Estendere la tutela reale contro il licenziamento ingiustificato (non è vero che si tratta – come sostiene la Cgil nella sua propaganda - solo del recesso per motivi disciplinari: basta leggere il comma 7 emendato per trovarvi anche il licenziamento per motivi oggettivi) anche alle aziende da 5 dipendenti in su vorrebbe dire rimettere in discussione l’assetto tradizionale delle tutele per centinaia di migliaia di strutture produttive. E in sostanza sconvolgerne un assetto consolidato che nessuno mai ha messo in causa.

Prima però di fasciarci la testa aspettiamo di averla rotta. Se i giudici delle leggi valutano il quesito n.1 sulla base della loro giurisprudenza consolidata, non possono non dichiararlo inammissibile. Ciò per diverse ragioni. La prima è che la Corte ha posto tre requisiti come indispensabili per l’ammissibilità dei quesiti: la chiarezza, univocità e omogeneità. La richiesta di referendum è eterogenea perché contiene più domande (tre) in un unico quesito. In particolare, la terza domanda introduce ex novo nell’ordinamento una norma mai esistita in precedenza (l’applicazione dell’art. 18 ai datori di lavoro con più di 5 dipendenti).

Il quesito manca di univocità perché carente di una matrice razionalmente unitaria. In parole povere, nello stesso quesito (vedi la scheda 1) viene proposta l’abrogazione tout court del dlgs n.23/2015 (istitutivo per i nuovi assunti dal 7 marzo di quell’anno del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti) e viene sottoposto ad una riscrittura col "taglia e cuci" (vedi la scheda 2 con le parti "da abrogare" sottolineate) l’articolo 18 come "novellato" dalla legge n. 92/2012 (la riforma Fornero, a valere per i "vecchi" assunti). Come si vede, i due quesiti si rivolgono persino a platee differenti.

Ma l’effetto conclusivo quale sarebbe? Il ripristino dell’articolo 18 come lo volle il legislatore del 1970? No. Niente affatto. Da quel caotico processo abrogativo-emendativo scaturirebbe un articolo 18 nuovo sia nei contenuti che nell’ambito di applicazione. Un elettore potrebbe essere d’accordo su una o due domande, ma, ad esempio, non sulla terza. Con un quesito unico che contiene una pluralità di domande si coarta la volontà dell’elettore, nel senso che questi viene indotto non già ad abrogare delle norme, ma a condividere forzatamente una nuova disciplina del licenziamento individuale.

Su aspetti analoghi si sono pronunciate negativamente diverse sentenze della Corte Costituzionale a partire da quella capostipite n.16/1978 (quesiti sul codice penale e sul codice penale militare di pace) e poi, ad esempio, le sentenze n. 27/1981 e n. 28/1987 (caccia) e, più recentemente, le sentenze n. 12/2014 (revisione circoscrizioni giudiziarie) e n. 6/2015 (trattamenti pensionistici).

Passiamo ad un altro motivo di inammissibilità. La Corte non ammette manipolazioni dei quesiti con la tecnica del “taglia e cuci” che utilizzino il testo di una legge come serbatoio di parole a cui attingere per costruire nuove disposizioni (addirittura lasciando sopravvivere solo alcune parole contenute in periodi diversi, separati dal punto, come per il comma 7 dell’art. 18). Il quesito deve riguardare l’abrogazione di norme la cui soppressione può far espandere la normativa residua, ma non può creare nuove disposizioni con tale tecnica di ritaglio. In tal modo il referendum abrogativo si trasformerebbe, di fatto, in un referendum propositivo surrettizio, non previsto dal nostro ordinamento.

Con riguardo all’inammissibilità del "taglia e cuci" si possono richiamare molte sentenze della Corte costituzionale. Ricordiamo tra tutte, grazie anche al prezioso contributo di un esperto della materia come Peppino Calderisi: la sentenza n. 36/1997 (quesito sui tetti pubblicitari della Rai, "una proposta referendaria non puramente ablativa ma innovativa e sostitutiva di norme", "costruita attraverso la saldatura di frammenti lessicali eterogenei, pone in luce il carattere propositivo del quesito"; "particolare tecnica di ritaglio adottata, che espressamente estrae dal testo il nuovo limite del 2 per cento, in luogo di quello originario del 12 per cento"); la sentenza n. 50/2000 (durata massima della custodia cautelare); le sentenze n. 43/2003 (procedure semplificate e incentivi per l’incenerimento dei rifiuti) e n. 46/2003 (sicurezza alimentare). Come si può vedere gli argomenti sulla non ammissibilità sono parecchio fondati.

SCHEDA 1*
Denominazione: «Abrogazione disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi»
Prima richiesta: Volete voi l'abrogazione del d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante "Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183" nella sua interezza e dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, recante " Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento" comma 1, limitatamente alle parole "previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 del codice civile"; comma 4, limitatamente alle parole: "per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili," e alle parole ", nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto"; comma 5 nella sua interezza; comma 6, limitatamente alla parola " quinto" e alle parole ", ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica 2 motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi" e alle parole ", quinto o settimo"; comma 7, limitatamente alle parole "che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento" e alle parole "; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo"; comma 8, limitatamente alle parole "in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento", alle parole "quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di" e alle parole", anche se ciascuna unità produttiva singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti"?

SCHEDA 2*
Legge - 20/05/1970 , n. 300

EPIGRAFE
Legge 20 maggio 1970, n. 300 (in Gazz. Uff., 27 maggio, n. 131). - Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento (STATUTO DEI LAVORATORI)
TITOLO II
DELLA LIBERTÀ SINDACALE

Art.18
Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.

1) Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

2) Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro sì condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

3) Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore sì data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non sì assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

4) Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro sì condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.

5) Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.

6) Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi sì anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.

7) Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento sì stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo.

8) Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.

9) Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all'ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui all'ottavo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.

10) Nell'ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo.

11) Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

12) L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile. L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.

13) Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui all'undicesimo comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.

*Le schede sono state predisposte dal prof. Giuseppe Pellacani, docente di diritto del lavoro Unimore.