Nell'Amaca del 4 febbraio Michele Serra si scandalizza dei jihadisti che bruciano libri in piazza a Mosul, e non si può non condividere il suo dolore e il suo scandalo. Serra suggerisce poi di investire il Califfato del "più grande lancio della storia di libri", sottolineando come basterebbero "i nostri scarti culturali" di "occidentali rincitrulliti dal benessere" a seminare in quelle terre qualcosa di più potente e devastante delle bombe.

rogolibri - Copia

Il proposito è tanto evocativo e pittoresco quanto, probabilmente, del tutto inutile. Non certo perché i libri non abbiano un enorme potere sugli esseri umani, almeno per quelli che li leggono, e qui verrebbe da dire che, nel caso, in Italia dovremmo cominciare a bombardare noi stessi; quanto perché inferisce nei jihadisti una nascosta volontà di essere come noi, li dipinge come persone che, se solo leggessero, sarebbero civili. Viene in mente la battuta per cui Hitler, se solo avesse letto Guerra e Pace, ci avrebbe pensato due volte prima di attaccare la Russia. Ma questa volontà, posto che ci sia, è tutta da dimostrare, e supporne l'esistenza potrebbe non essere altro che una forma di paternalismo.

È una fiducia che potrebbe risultare aneddotica e ai limiti dell'illusionismo autoconsolatorio, un tentativo di imporre un senso conosciuto a fenomeni complessi; anche se, quantomeno ad uso interno, è utile e bello pensare di restituire centralità alla parola, che è cardine tradizionale dell'Europa sia per quanto riguarda il ramo giudaico-cristiano che quello greco. La libertà di parola è uno dei grandi valori laici di cui ci facciamo latori con comprensibile orgoglio.

C'è però qualcosa di più sottile che stride: è la retorica, qui riproposta ma non certo nuova né peculiare del solo Serra, dell'occidente rincitrullito dal benessere. A poco vale che tale benessere, lungi dall'essere equo e perfetto, sia comunque quello che ci permette di campare decentemente sani e con un'aspettativa di vita inimmaginabile fino a cent'anni fa, di non lavorare quattordici ore nei campi e di permetterci di coltivare il pensiero critico: il "troppo benessere" (troppo su quale scala?) ci avrebbe resi molli, decadenti, bisognosi di emendare una moralità perduta, di andare alla ricerca di un Eden mitologico, una Natura idealizzata, in cui il peccato non ci aveva ancora macchiati.

È frequente, soprattutto in chi ha come paradigma di riferimento i propri vent'anni, o gli anni Settanta, o entrambi, avere grossi problemi nel dover giustificare moralmente a se stessi il proprio benessere, al punto di sentire la necessità di espiarlo come se fosse una colpa, invece di goderselo con un minimo di giudizio. Di per sé nulla di male, se non fosse che questo atteggiamento si traduce sempre più spesso in un regresso dei valori dell'illuminismo di cui intanto lamentiamo l'assenza in altre parti del mondo (con l'aggravante che qui l'illuminismo dovrebbe essere di casa); si traduce in un lagnoso luddismo culturale contro tutto ciò che è modernità e soprattutto, il che è più grave, tracolla nella contemporanea abdicazione al ruolo dell'intellettuale.

Ruolo che dovrebbe includere, invece, l'abilità di usare il passato per leggere il presente e le sue sfide, a partire da quelle scientifiche ed etiche, in modo da ribadire il senso della cultura come arma di riscatto sociale: posto che si abbia ancora la curiosità di guardare il mondo e non ci si voglia infilare in una ridotta reazionaria a infiocchettare di riferimenti dotti la vecchia massima secondo cui qui, una volta, era tutta campagna.