Fauda: la politica israeliana vista attraverso Netflix
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Sin dal suo inizio, il conflitto israelo-palestinese è stato più volte posto al centro dell’attenzione da parte dei maggiori media a livello internazionale, soprattutto nei periodi di maggiore crisi. L’attenzione ricevuta si è manifestata anche nel mondo della cultura e dello spettacolo, e in particolare in film e serie televisive.
Nonostante questo interesse, prima della notorietà ottenuta negli ultimi anni grazie a Netflix e altre piattaforme streaming, raramente i film relativi a Israele riscuotevano successo fuori dai cinema d’essai; per molto tempo in Italia li si poteva vedere soprattutto in festival specializzati quali la Rassegna del Nuovo Cinema Ebraico e Israeliano di Milano o il Pitigliani Kolno’a Festival di Roma. Le nuove piattaforme streaming hanno avuto l’effetto di decentralizzare la fruizione di film e serie tv, per cui per un italiano è molto più facile rispetto al passato scoprire prodotti culturali di paesi non anglofoni. Nel caso d’Israele, una delle prime serie a riscuotere un successo globale è stata Fauda, creata da Lior Raz e Avi Issacharoff e della quale a luglio è uscita la quarta stagione.
Inaugurata nel 2015 sul canale televisivo israeliano “Yes Oh”, la serie è ambientata in anni recenti; Doron Kavillio (lo stesso Lior Raz) è un ex-membro dell’unità speciale antiterrorismo dell’esercito israeliano, che si è ritirato a vita privata. Questo fino al giorno in cui scopre che Abu Ahmed (Hisham Sulliman), un terrorista di Hamas soprannominato “La Pantera” che credeva di aver ucciso tempo prima, è ancora vivo e intende pianificare nuovi attentati. Doron decide di riunirsi alla sua vecchia squadra, con la quale organizza una serie di incursioni in Cisgiordania per cercare di eliminare il loro bersaglio, pagando un prezzo molto alto nei vari tentativi.
In ciascuna delle prime tre le stagioni, la storia ruota attorno a Doron e la sua squadra che devono catturare o eliminare un bersaglio ben preciso, un terrorista con caratteristiche ricorrenti: si tratta sempre di qualcuno che ha le sue radici ideologiche e a volte anche familiari nel movimento islamista di Hamas, ma che spesso è allergico alla gerarchia ed è più radicale rispetto ai capi del movimento, che cercano di agire senza attirare troppa attenzione. Questo loro essere identificati come “schegge impazzite” fa sì che “La Pantera”, nella prima stagione, verrà ucciso proprio per conto di Hamas dal suo braccio destro Walid (Shadi Ma’ari). Mentre l’antagonista principale della seconda stagione, Nidal Al Maqdisi (Firas Nassar), ritenendo il movimento troppo moderato decide di creare una cellula dell’ISIS nei territori palestinesi.
La peculiarità della serie è che in ogni stagione si cerca di creare immedesimazione in entrambe le fazioni: ci sono i militari israeliani, che per difendere il loro paese devono compiere molte rinunce di carattere affettivo, tanto che Doron nel corso della serie divorzia dopo aver scoperto che sua moglie Gali (Netta Garti), ritrovandosi quasi sempre a crescere i figli da sola, lo tradiva con il suo compagno di squadra Naor (Tsahi Halevi). Ma ci sono anche i palestinesi familiari dei terroristi, che si ritrovano in mezzo agli scontri armati senza volerlo e in alcuni casi perdono la vita. Se i primi agiscono perché non vogliono vedere bombe esplodere in casa loro, i secondi covano l’insofferenza nei confronti dell’occupazione.
Questa immedesimazione è facilitata dal fatto che l’unità di Doron è composta prevalentemente da ebrei capaci di spacciarsi per arabi in modo da infiltrarsi nella società palestinese (non a caso Lior Raz viene da una famiglia di ebrei iracheni), a parte un druso israeliano che si aggiunge alla fine della terza stagione. Tra l’altro, proprio Raz prima di diventare un attore aveva fatto parte come soldato dell’Unità Duvdevan, che si occupa proprio di operazioni antiterrorismo in territorio arabo.
L’impressione che si ha è quella di una guerra dove, sia tra gli israeliani che tra i palestinesi, sono gli innocenti a pagare il prezzo più alto. Non a caso, il termine “Fauda” in arabo vuol dire “caos”, e nel gergo militare israeliano indica una situazione in cui un’operazione sotto copertura finisce male. I protagonisti non sono né eroi senza macchia né mostri, ma semplicemente uomini che, spinti dal senso del dovere, si ritrovano a compiere gesti molto cinici convinti di agire per un bene più grande.
Alcuni membri del cast avevano già preso parte ad altre produzioni che affrontano entrambe le prospettive: Tsahi Halevi e Shadi Ma’ari avevano già recitato insieme nel film del 2013 Bethlehem, dove il primo era un agente dello Shin Bet in grado di parlare l’arabo e il secondo un giovane della Cisgiordania fratello di un terrorista, che l’agente cerca di scovare. Tra l’altro, nel 2018 Halevi aveva fatto molto discutere sui media israeliani dopo aver sposato la giornalista Lucy Aharish, un’araba musulmana, attirando sia sostegno che ostilità da entrambe le parti.
Quello dell’israeliano “che diventa arabo” per attività di spionaggio è un archetipo divenuto sempre più diffuso negli ultimi anni: oltre a Fauda, su Netflix si trova anche The Spy, miniserie del 2019 sulla vita dell’agente segreto Eli Cohen (interpretato da Sacha Baron Cohen), israeliano nato in Egitto che nei primi anni ’60 si infiltrò in Siria spacciandosi per un uomo del posto, arrivando a fare carriera fino a diventare Viceministro della Difesa del governo siriano di allora. Purtroppo, venne scoperto e impiccato a Damasco nel 1965. Caso simile è quello di Teheran, serie iniziata nel 2020 e che in Italia si trova solo su Apple TV+, su un’ebrea iraniana che tempo dopo essere emigrata in Israele deve tornare nel suo paese natale come agente segreto, per sabotare una centrale nucleare.
Proprio perché i protagonisti sono spesso mizrachim, ossia ebrei originari dei paesi arabi, Fauda ha anche qualcosa da dire in merito alla loro integrazione nel tessuto sociale israeliano: nel musical teatrale israeliano del 1954 Kazablan, dal quale nel 1973 venne tratto un film, si vede come negli anni ’50 gli ebrei venuti dai paesi islamici e quelli dall’Europa dell’est costituivano quasi due mondi diversi, che si snobbavano a vicenda. Ciò emergeva chiaramente quando nacque una storia d’amore tra il protagonista, un ebreo marocchino di umili origini (soprannominato “Kazablan”, da Casablanca), e la figlia di una ricca famiglia di ebrei polacchi, che all’inizio disapprovava la loro relazione. Fauda, ambientata in anni recenti, ci racconta di uno Stato Ebraico in cui i figli e nipoti dei vari Kazablan si sono sempre più integrati, al punto da costituirne parte delle fondamenta.
Un'altra caratteristica che distingue Fauda da altre produzioni sullo stesso tema è che questa è riuscita ad ottenere un consenso apparentemente bipartisan, da parte di spettatori sia di destra che di sinistra. Lior Raz, poco tempo dopo l’esordio della prima stagione, raccontò di essere rimasto stupito per il successo della serie: “’Pensavamo che la sinistra ci avrebbe accusati di razzismo, e la destra ci avrebbe accusati di troppa bontà verso i palestinesi’. Invece, ottenne un ampio consenso da entrambe le parti.
Quando, nel dicembre 2020, rappresentanti della Croce Rossa accusarono la serie di presunte “violazioni dei diritti umani”, fan da tutto il mondo iniziarono a prenderli in giro sui social. Gli stessi creatori della serie, Raz e Issacharoff, scrissero ironicamente: “Teniamo in considerazione tutto ciò per l’elaborazione della quarta stagione e promettiamo di tornare presto con delle nuove violazioni delle leggi internazionali”. Ora che la stagione è uscita, non resta che guardarla e sperare che sia all’altezza delle aspettative.