Israele spia civili palestinesi, ne ascolta le conversazioni private, registra le informazioni e poi usa quelle informazioni per costringere quei civili a passare altre informazioni, le quali a loro volta permettono all'IDF di compiere operazioni contro questo o quel covo, arsenale, capo di organizzazione jihadista. I palestinesi intercettati non sono tutti terroristi, anzi per lo più non rappresentano neanche una minaccia, né contingente né potenziale. Rappresentano semmai, per Israele, un'opportunità. Questi civili non parlano né di armi né di attentati ma, ascoltando le loro conversioni telefoniche, l'intelligence ricava informazioni fungibili: malattie, gusti sessuali vietati, abitudini imbarazzanti, cose così.

stato di israele grande

Se l'intelligence dell'IDF scopre che una donna palestinese ha un tumore, ad esempio, gli agenti israeliani potranno proporle la cura che nessuna struttura sanitaria palestinese le darebbe mai. Potranno assicurarle un ospedale israeliano all'avanguardia e gratis, ma solo dopo che lei in cambio avrà fatto una spiata. Di spie palestinesi al soldo degli israeliani ce ne sono tante e talune eccellenti. In Son of Hamas, Mosab Hassan Youses racconta come sia diventato spia degli israeliani, lui che è figlio dello Sceicco fondatore di Hamas. Per un palestinese, tuttavia, fare la spia per Israele, può non essere un'attività del tutto sicura, dal momento che Hamas le spie le giustizia in piazza, dopo scrupoloso processo dell'efficientissimo tribunale della Sharia.

Queste cose sono state denunciate da 43 riservisti di un'unità speciale di intelligence dell'esercito israeliano, la Unit 8200, in una lettera pubblicata sul quotidiano Ynet. I 43 selezionatissimi soldati esprimono disagio morale verso quel tipo di operazioni: spiare civili, obiettano, è roba da Stasi, non ha relazione con gli obiettivi strategici dell'intelligence, ed alla prossima convocazione loro diranno no. Ammutinamento, non proprio obiezione – non intendono rifiutarsi di prestare servizio tout court, ma solo di fare quelle cose lì, in quell'unità lì, il corpo speciale per il quale sono stati appositamente reclutati tra le eccellenze dell'ITC.

Le cose denunciate sono vere. Ma i 43 raccontano cose che sappiamo già, che Wikileaks ci ha dimostrato, che le intelligence di tutto il mondo fanno – possiamo dire - per dovere ontologico. Stanno apposta lì a fare cose non proprio morali. Si spiano persone libere, ignare e innocenti; lo si fa anche in tempo di pace, ci si spia tra paesi amici, si raccolgono informazioni perché si pensa di poterne trarre vantaggio, non perché quelle informazioni servano a disinnescare una minaccia incombente. Tutto questo è immorale, è davvero un brutto lavoro ma qualcuno lo deve pur fare. In Israele quel qualcuno sono praticamente tutti.

In Israele, prestare servizio nell'esercito non è un'opzione. I riservisti - civili, uomini e donne - prestano servizio ogni anno per un paio di settimane e vengono richiamati sul campo quando si apre un nuovo fronte. I 43, con la loro lettera, affrontano una questione sensata. La questione però è politica, non militare: quale costo gli israeliani sono disposti a pagare perché Israele non smetta di essere Israele?

Fare la guerra pone un'infinità di dilemmi morali, non solo al cecchino sul terreno. Il pilota non vede l'uomo che ha appena ucciso con il missile sganciato con un click alla cloche; lo specialista delle intercettazioni ascolta l'intimità telefonica di uno sconosciuto e sa che a quell'uomo in quel momento è stato negato un diritto; che quell'uomo, da quel momento, non è più libero. Fanno tutti la guerra - il pilota, il tecnico dell'ascolto, il soldato con gli scarponi insabbiati; la guerra è quella cosa lì.
Il costo morale del sionismo, gravosissimo (Ari Shavit, My Promised Land), non è tuttavia maggiore o più grave o spietato di quanto non lo sia quello ereditato dagli europei occidentali per la bandiera nazionale issata sul nostro pezzo di terra.

I confini dei nostri pacifici, illuminati, sensibilissimi stati europei non sono stati disegnati dalla natura ma da guerre, colonie, occupazioni imperiali. Noi contemporanei di questo non avvertiamo il fardello: colonialisti, imperialisti, fascisti, nazisti sono stati i nostri antenati, mica noi. Per gli israeliani invece il fardello della statualità è recente, attraversa le generazioni. È il fardello sionista: lo zaino pronto a partire per Gaza, il Golan, il Libano e la coscienza che sa di doversi macchiare. Fare una nazione, d'altronde, costa.

Forse lo zaino si è fatto pesante. Forse non c'è più troppa voglia di portarlo. Forse agli israeliani serve una prospettiva diversa da una tregua tra un supplizio e un altro, tra finire sotto i razzi da Hamas o essere obiettivo dei razzi di Hezbollah; tra il kamikaze palestinese e il kamikaze dell'Isis. La questione è politica, tuttavia, non militare. E per Israele credo sia anche la questione cruciale.

@kuliscioff