I propagandisti di Putin. Il soft power del Cremlino sulla cultura italiana
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Mi si chiede un compito assai improbo: una critica del lungo e approfondito studio “L’influenza russa sulla cultura, sul mondo accademico e sui think tank italiani” di Massimiliano Di Pasquale e Luigi Sergio Germani. Compito improbo, perché in qualche modo il lavoro potrebbe essere “liquidato” in questo modo: analisi tanto impeccabile, quanto indispensabile. Lettura vivamente consigliata.
Il viaggio nel continente delle “misure attive” della Federazione russa che ci propongono gli autori ha come primo pregio di essere all’insegna, se non della “storia lunga” di Fernand Braudel, di una storia comunque assai lunga e, di sicuro, molto connessa ai tempi che viviamo. Il viaggio comincia in effetti all’inizio dello scorso secolo, all’epoca quindi della saldatura tra la teoria della grande e radicale eresia giudeo-cristiana – il marxismo – e lo strumento della sua attuazione, il partito-stato concepito da Vladimir Ilich, il San Paolo di quei tempi. François Furet ha insegnato come quel combinato disposto sia all’origine della moderna ideologia totale nelle sue varie declinazioni iniziali: bolscevica, fascista, nazista, … o, attuali, putiniana, casaleggiana o altre pudicamente camuffate con i termini: “democratiche-illiberali”.
Gli autori fanno una distinzione fra i Russland-Versteher, i “simpatizzanti” della Russia che non contestano l’appartenenza dell’Italia alla Nato e all’UE, e i neo-eurasiatici anti-Nato e anti-UE, fautori di un’alleanza strategica tra Europa e Russia. Precisano tuttavia che l’anti-americanismo è molto spesso caratteristico di entrambi i gruppi. Questo è, evidentemente, un punto importante perché da la misura di quanto la non-contestazione dell’appartenenza alla Nato e all’UE sia strumentale, tattica e, alla fine dei conti, indicativa del carattere molto più pernicioso e pericoloso dei Russland-Versteher per la tenuta della democrazia e dello stato di diritto, in Italia ma non solo.
Come ampiamente illustrato dagli autori, l’Ucraina costituisce un esempio paradigmatico del putinismo “soft” della classe dirigente politico-intellettuale italiana. Come ben evidenziato nello studio, a sposare la visione del Cremlino si comincia con la rivoluzione arancione del 2004. Emblematico a questo proposito un articolo del 2008 della Pravda dei Russland-Versteher, Limes, intitolato “Progetto Russia” e sottotitolato “come smembrare Ucraina e Georgia”. Quando nel 2013 comincia Euromaidan, la Rivoluzione della dignità, il terreno è ormai ben preparato per una convergenza non solo dell’estrema sinistra e dell’estrema destra, ma anche di buona parte della destra e della sinistra italiana su posizioni radicalmente anti-ucraine e quindi filo Cremlino.
Esemplare da questo punto di vista, la posizione assunta dalla stragrande maggioranza dei mass media e degli ambienti intellettuali italiani su un caso, del resto, temiamo, non del tutto concluso, quello del soldato italo-ucraino Vitaly Markiv, dichiarato colpevole “a prescindere” della morte di Andrei Mironov e di Andrea Rocchelli dagli uni e dagli altri e condannato in prima istanza dalla Corte d’Assisi di Pavia a 21 anni di galera e assolto in secondo grado dalla Corte d’Assise di Milano, senza però che venisse messo minimamente in discussione tutto l’impianto accusatorio e cioè la responsabilità ucraina.
L’unilateralismo del lavoro degli inquirenti (e poi dei giudici) apre ad un interrogativo che ci porta fuori dalla tematica affrontata dagli autori, quello dei collegamenti dei mass media, del mondo accademico e dei think tank italiani con il “deep state”, lo stato profondo. “Con l’Italia le relazioni del Cremlino sono intime : la costruzione del palazzo di Putin è stata affidata ad un architetto italiano, sono italiani quelli che hanno ammobiliato questa modesta dimora, è in Italia che il propagandista in capo del Cremlino, Vladimir Soloviov, detiene una sontuosa villa, così come è in Toscana che l’ex presidente Dmitri Medvedev coltiva la vite: tutto ciò presuppone un grado di fiducia stupefacente e senza dubbio meritato quando si conoscono le disposizioni sospettose degli uomini del Cremlino” (*).
L’interrogativo mi porta a un auspicio e, se posso, a un invito agli autori di intraprendere, se ne hanno voglia e se lo ritengono fattibile, uno studio sui collegamenti tra mass media, think tank e accademici con i mondi degli apparati dei servizi di intelligence, della sicurezza e della diplomazia – dalla Farnesina al Ministero dell’Interno – e con quel sistema di economia di relazione, di connivenza e clientelare – il cosiddetto crony capitalism – che ha, per ovvie ragioni, più affinità con la Russia di Putin che con quella di un’Ucraina che ha deciso di percorrere, non senza difficoltà e ritardi, la dura strada dell’edificazione di un’economia di mercato, dello stato di diritto e dell’integrazione europea.
*Françoise Thom, « Le monde vu du Kremlin : le miroir de la propagande à usage interne », Le Grand Continent, 6 marzo 2021