simone weil grande

Il prepotente ritorno della consapevolezza antica che fragilità ed incertezza sono aspetti strutturali, non contingenti della vita umana si è sovrapposto, in quest’anno senza precedenti, ai giorni della Pasqua ebraica e cristiana. Celebrazioni di liberazione e salvezza da schiavitú e peccato, queste feste religiose ci riportano alle radici piú profonde dei rituali pre-cristiani, il cui simbolismo si è riversato dalla cultura pagana alle sacre scritture sino al folklore europeo in forme sorprendentemente inalterate.

La contiguità di significati tra la Pèsach e la Pasqua è lí a ricordarci come non sia la credenza in, bensí la conoscenza di quel simbolismo e del suo ruolo inalterato di mediatore tra pensiero e spirito a fare di un credente un credente. È proprio la mancanza di curiosità per quel simbolismo da parte della cultura europea scaturita dalle ortodossie materialiste e scientiste del novecento ad avere ridotto il credente – e piú che mai il cristiano, privo dell’immunità accordata ai perseguitati e delle barricate difensive destinate alle minoranze – ad abitante di un mondo di favole eretto sulle fondamenta dell’ignoranza.

Eppure, poche indagini hanno sfidato l’intelletto umano quanto quella che circonda l’essere o il non essere credenti. E poche risposte nel corso della storia hanno avuto implicazioni piú definitive e sofferte per l’individuo, al punto che è lecito sospettare che quanti non associano alcuna fatica a quella che si sono dati non si siano realmente posti la domanda. Non affacciandosi alla sua vertiginosa profondità.

Immersa in quella profondità, consumata da una tensione intellettuale ed un rigore spirituale strazianti trascorse la vita Simone Weil, filosofa francese cresciuta in una famiglia agnostica di origini ebraiche. Spentasi al culmine di entrambe nei primi anni ’40 del secolo scorso, i suoi ultimi scritti restituiscono un’indagine sulla fede e sulla sventura umana cosí originale ed acuta da aver penetrato tutte le letterature dell’ultimo secolo. In Italia li si ritrova tra altri negli straordinari saggi di fenomenologia del dolore psichico di Eugenio Borgna, dove si incontrano anche i diari di Etty Hillesum, altra involontaria testimone di una gioventú europea di origini ebraiche cosmopolita, straordinariamente emancipata e colta spentasi nelle tenebre della deportazione al culmine della propria luminosità.

Hillesum e Weil condividono la medesima traduzione di Dio in amore universale e di quest’ultimo in pratica cosciente di amor fati. Implicitamente l’una ed esplicitamente l’altra, entrambe le donne si ricongiungono cosí alla stoica accettazione dell’ordine del mondo e dei suoi accadimenti attraverso lo sforzo di orientamento dell’attenzione al bene: “a quel pezzettino di cielo”, scriverà Hillesum dal campo di deportazione olandese di Westerbork, che malgrado tutto filtra tra le baracche. Quel che le distingue è la direzionalitá e vastità delle rispettive indagini. Introspettiva, a tratti intima la prima, la seconda è un’opera di scavo intellettuale che presume l’interlocuzione con l’altro. La metafora che meglio descrive l’esperienza di lettura dei Quaderni e delle lettere di Weil raccolte in Attesa di Dio è, difatti, quella dell’esplorazione speleologica: servono una predisposizione e degli attrezzi particolari. In particolare la determinazione di orientarsi tra nicchie di significato da cui si diramano ipotesi e considerazioni concorrenti munendosi di pile – dal Timeo di Platone che non si ricorda ai Vangeli Apocrifi che non si sono mai letti – capaci di spruzzare quel tanto di luce nelle profondità del testo da poter imboccare gallerie di significato che resterebbero, altrimenti, sotterrate tra le centinaia di citazioni che vi si incontrano.

Ma sopratutto, serve una non comune curiosità per Dio. L’assoluta unicità dell’esperienza di lettura di questi saggi risiede nelle diramazioni di senso tracciate al di sotto della superficie di questa parola, per Weil origine e al contempo punto cardinale del pensiero sulla sventura umana. Sventura che non è una condizione contingente delle vicende terrene, ma il tratto essenziale dell’esistenza; e che per lei non è un concetto da indagare, ma una dimensione di cui fare esperienza con tutta la radicalità concessale dalla propria vocazione per l’indagine stessa. Indagine che evolverà quindi molto presto da politica ad esistenziale: da indagine sulla sventura ad indagine nella sventura.

Se la radicalità consiste nell’incarnazione delle idee attraverso l’agire del corpo, la vita di Weil ne è una manifestazione talmente integerrima da avere fatto ammantare la sua figura di misticismo (aura che verosimilmente lei avrebbe rigettato). Per comprendere la sventura operaia, si farà operaia, “fondendosi” – dirà – con le vite alla catena di montaggio delle fabbriche Renault ed il conteggio dei pezzi eseguiti minuto per minuto. Ne piangerà tutto il giorno per poterne dare testimonianza, nei suoi diari, di notte. Gallimard ne trarrà il saggio postumo La Condizione Operaia (1951). Incendiata dalla causa partigiana, già malata e rifugiatasi negli Stati Uniti si farà partigiana tra le fila dei francesi esuli in Inghilterra. Insisterà per raggiungere il fronte francese. Le verrà invece ordinato di scrivere. Scriverà. Incessantemente.

Esiliatasi dalla fede ebraica a causa dell’inaccettabilità, per ciò che considerava la logica stessa del bene, della nozione di popolo eletto, sarà proprio questa sua costante ricerca di fusione con gli sventurati ad affacciare prepotentemente la filosofa all’ipotesi del battesimo. Ipotesi che la strazierà fino alla morte, a soli 34 anni, in quell’Inghilterra da cui non riuscí ad evadere. Non vi cederà per la medesima impossibilità impostale dalla ragione di far proprio il dogma cristiano, le cui origini indaga instancabilmente attraverso la lettura dei classici greci e latini, la traduzione dal sanscrito dei testi della mistica indú e lo studio attento del folklore. L’acume e molteplicità delle connessioni che arriva a tracciare tra queste letterature non lasciano scampo alla ragionevole conclusione che paganesimo e cristianesimo costituiscono un continuum dalla comune origine nella prima intuizione dell’amore caritatevole come riflesso dell’amore trascendentale: intuizione necessariamente pre-cristiana, infiltratasi tanto nei classici quanto nella letteratura canonica e tramandatasi attraverso simboli, miti e leggende in tutte le tradizioni del mondo. Come rielaborato nell’omonimo saggio Intuitions pré-chrétiennes, è essenzialmente sulla genesi di questa conclusione che Simone sente di non poter fare concessioni alla Chiesa: al contrario, man mano che si cementerà in lei la certezza di una morte imminente, ad essa associerà un dovere di elaborazione e testimonianza sempre piú impellente.

L’eredità di questa filosofa eccezionale affonda in questa mole impressionante di studi e nel filo conduttore che ella vi traccia fino a comporre quella che potremmo definire una storiografia dell’amore caritatevole dalle sue origini nel pensiero fino ai nostri giorni: giorni di identici esili, uguali carestie, medesime persecuzioni e sventure – e con esse di identiche, luminose, manifestazioni di Bene. Bene incarnabile dall’individuo animato da un credo radicale bene prima, o al di là, di dogmi ed affiliazioni.

Rileggerla in questi giorni di sospensione del mondo è un’occasione preziosa per prendere un momento di distanza da quella cultura contemporanea che rifiuta a priori ogni continuità tra esperienza e trascendenza, fisica e metafisica, tra indagine sulla fede e fede; indagine che può ben concludersi nell’ateismo, nell’agnosticismo o nel nulla, ma sempre percorrendo le medesime strade percorse dalla ragione che approda a Dio. Poche donne, pochi uomini le han camminate con altrettanta radicale libertà.

@ClaudiaBasta