Gigi Dalessio

In questi giorni attorno al Festival dell’Unità di Torino si è scatenata una polemica circa l’opportunità o meno della presenza di Gigi d’Alessio a una delle serate in programma.

Invitato dagli organizzatori a parlare sul tema della SIAE nel mondo dei canzonettari contemporanei, il famosissimo neomelodico napoletano ha dapprima accettato entusiasticamente l’invito, per poi declinarlo in seguito ad alcune polemiche che erano insorte, per tornare infine a cambiare idea un’altra volta ed essere presente al festival nella serata di sabato 3 settembre.

Senza voler entrare nel merito preciso della liceità o meno della presenza di D’Alessio alla manifestazione annuale del maggior partito della Sinistra italiana, né tantomeno in quello del valore artistico delle sue canzoni, certo è che la scelta di Gigi D’Alessio come interlocutore del Partito Democratico di per sé suona immediatamente quanto meno originale. Storicamente, infatti, il Festival dell’Unità era abituato a fregiarsi di presenze di un certo spessore culturale, ai limiti, se proprio vogliamo essere cattivi, dello snobismo.

Per parlare solo di musica leggera, in passato di solito ai Guccini, Dalla, De Gregori e compagnia – è il caso di dirlo – cantante, si univano, è vero, momenti attenti alla cultura popolare. Ma anche in questo caso non era mai assente un gusto un po’ sofisticato, che tuttalpiù profumava orgogliosamente di lambrusco e salamelle (e a Torino di barbera).

Insomma, da sempre la cultura con la C maiuscola trovava nella sinistra istituzionale la propria naturale cittadinanza e ci si muoveva con disinvoltura. Se negli anni settanta l’intellettuale di sinistra era ormai una figura tipica e inconfondibile, più di recente era invece emersa un’immagine un po’ diversa, i sedicenti amati odiati radical chic. Il risultato è stato un intensificarsi del tono sofisticato e di tendenza vagamente salottiera. Eppure alzati, che si sta alzando/la canzone popolare, cantava Ivano Fossati agli albori dell’Ulivo, negli anni novanta, infiammando gli animi di semplici e colti, tutti accesi da uno stesso brivido di appartenenza politica e, appunto, culturale.

Invece, tutta l’area che interessava il cosiddetto italiano medio, quello che una volta era rappresentato da Alberto Sordi, che negli anni ottanta andava in vacanza con i Vanzina e che oggi può essere identificato con i personaggi opportunisticamente incolori di Checco Zalone, era appannaggio di altri ambiti culturali e, conseguentemente, politici. Qualcosa però, dev’essere cambiato, per forza.

Con tutto il dovuto rispetto sia per Gigi D’Alessio, sia per chi ne ama le canzoni, è evidente che i casi sono due. O presto ci stupiremo di una deriva radical, culturalmente e musicalmente “tosta” di Gigi, cosa da non escludere a priori, a voler essere (molto) ottimisti, magari in direzione jazz, chi può dirlo. Oppure è in atto un tentativo diverso, per cui il maggiore partito della Sinistra cerca di svecchiarsi e cambiare i propri interlocutori, virando, con un’abile e ardita mossa, dal pubblico colto “di sinistra” radical chic alla “gggente”. Sarà così? Forse la volontà è quella di cambiare immagine, diventare più popolari, più facili. Forse l’intenzione è buona e si tratta del tentativo di avvicinarsi alle persone più semplici.

E tuttavia non si può negare che l’idea stessa di “avvicinarsi” di per sé evoca due immagini, tutte e due non proprio simpatiche. La prima ha a che fare con il fatto che si presume che chi si avvicina faccia come uno sforzo per abbassarsi, supponendo una superiorità che potrebbe essere del tutto pretestuosa. Ma poi avvicinarsi alla gente comune per mezzo delle canzoni è gesto che, per altro, risulta del tutto inutile, perché stona e suona come un travestimento mal riuscito.

Sorge poi il terribile sospetto che si cerchi di mutare il proprio codice genetico culturale semplicemente perché lo si è un po’ perso da qualche parte, chissà dove, tra una polemica interna e l’altra, e così non si riesca più a tenere il passo con i tempi. Né i tempi del mondo, che intanto viaggia per i fatti suoi e trova altre, più o meno valide, forme di espressione culturale e politica, né i tempi propri, che hanno a che fare con la propria identità. Se manca questo, voler “andare a comandare” non basta e non aiuta.

Mi viene in mente un libro che ho studiato una volta. Chi sono io? chi sei tu? recitava il titolo di una raccolta di saggi di Hans Georg Gadamer, di tanti anni fa. Ma sono ancora queste le due domande a cui è necessario saper rispondere, se si vuole proporre qualcosa e dialogare con gli altri. Il sospetto è che a qualcuno manchi la risposta esatta ad entrambe.