ingrao

Chi parla oggi di Pietro Ingrao come dell’eterno sconfitto della sinistra italiana racconta una verità tanto parziale da non essere, forse, nemmeno una verità. In realtà le sconfitte di Ingrao hanno marcato il codice genetico della sinistra, ben oltre i confini del suo partito, molto più profondamente di quanto non abbiano mai fatto le vittorie dei suoi avversari. A cominciare da quell’Amendola che all’XI congresso - era il 1966 - custodiva, oltre all’ortodossia del centralismo democratico, anche il pragmatismo riformista del suo partito: i lavoratori si difendono dove si può, quando si può, al meglio che si può, nei “mille rivoli” e nelle molteplici forme che la lotta di classe poteva assumere nell’Italia del boom economico - è il partito che si adegua alla realtà, e non viceversa.

Le tesi di Ingrao erano molto più suggestive e, se vogliamo, autoconsolatorie, nella pretesa di individuare a priori un nuovo modello di sviluppo da contrapporre a un capitalismo che negli anni ’60 aveva un volto sempre meno arcigno e sempre più “consumisticamente” seducente tra le masse operaie della nuova Italia urbana e industriale: ridisegnare Marx, prima ancora che il partito, sulla scorta dei nuovi tempi, e farlo attraverso una discussione franca, aperta e democratica. Indicare la via, farlo rigorosamente prima di mettersi in marcia, arrovellandosi sulla rotta da percorrere ben oltre il ragionevole, e guardandosi bene, nel frattempo, dal toccare il timone. La sinistra che la mia generazione ha conosciuto è stata, in questo, molto più profondamente ingraiana di quanto non volesse sembrare. Libertaria, in qualche modo, nella sua cronica e sofferente inconcludenza e nell’indisponibilità a venire a compromessi con il presente e con il reale, ovvero con il potere. Se c'è un altro leader che, lungo la storia dell'Italia repubblicana, ha condiviso con Pietro Ingrao una simile paranoia dell'agire politico, benché su altre sponde, questo è Marco Pannella.

Dell’eredità di Ingrao, con gli anni, è rimasto l’involucro peggiore: l’assemblearismo onirico che rifiuta sempre di scegliere quando la scelta presuppone una decisione, il “benaltrismo” che regolarmente rimanda alla soluzione di un problema a monte l’impegno per affrontare un problema a valle, la pretesa e mai raggiunta coerenza dell’azione quotidiana con un sistema ideologico superiore e trascendente, la riduzione della politica nazionale a "congresso permantente" e dei congressi a sedute di autocoscienza collettiva. Mentre di Pietro Ingrao la sinistra ha perso per strada la coscienza della necessità di conoscere il mondo fin nei dettagli per poter immaginare di cambiarlo. Ingrao negli anni '80 era molto più interessato all’evoluzione delle relazioni industriali e al modello “post-fordista” della fabbrica di fine ‘900, che a marcare la “superiorità morale” della sinistra e dei suoi militanti. Anche quando, nell’89, ha raccolto la sfida molto “ingraiana” di un ex ingraiano, Achille Occhetto, a rimappare il DNA del Partito Comunista e dei suoi militanti, Pietro Ingrao parlava ancora di capitale e di fabbrica a un partito che ormai preferiva parlare di giudici e che di fabbrica non ha mai ricominciato, nel bene o nel male, a parlare.

Pietro Ingrao, che se ne è andato ieri all'età di 100 anni, non è tanto uno sconfitto, quanto uno degli artefici più autentici e appassionati di una sinistra e di un partito costruito come un rifugio adolescenziale in cui ci si agita tanto, troppo, e non ci si muove mai. 

@giordanomasini