Letta Zingaretti grande

Le ultime convulsioni interne al PD, all’indomani della fine del Governo Conte 2, spingono a ripercorrere la storia della sinistra italiana, di cui questo partito è ancora la principale espressione, alla ricerca delle radici di una crisi che sembra ormai giunta al non più rinviabile momento di chiarimento interno su valori, identità e proposte politiche.

Le masse italiane divennero soggetto politico con la legge del dicembre 1918 che abolì il voto censitario. Il Partito Socialista risultò il primo partito con il 35% dei voti. I socialisti italiani erano tutti di fede marxista, convinti di dover lottare per realizzare la "società socialista", che non ammetteva la proprietà privata. Infatti il congresso del 1919 ratificò l'adesione del PSI all'Internazionale Comunista e approvò tutte le tesi "rivoluzionarie" sostenute dai compagni russi.

Il documento, approvato dalla maggioranza, si richiamava all'esperienza della rivoluzione bolscevica e proponeva l'instaurazione della dittatura del proletariato e la creazione di soviet dei lavoratori, dei contadini e dei soldati. L'ala più rivoluzionaria pretendeva inoltre l'espulsione dei riformisti, ma la mozione non fu approvata. Nel 1921, in ossequio alle richieste dell'Internazionale Comunista, la corrente bolscevica pretese in via ultimativa il cambio di nome del partito e l'espulsione della minoranza dei riformisti di Turati. La mozione non fu approvata e maturò cosi la scissione guidata da Bordiga, Gramsci e Togliatti, che fondarono il PCI.

La rivoluzione divenne dunque l'obiettivo del nuovo partito, Ma la rivoluzione non la fece il PCI, bensì i fascisti guidati dal "socialista nazionalista" Mussolini. Il fallimento diventò il centro delle riflessioni di Gramsci che identificò nella complessità sociale e culturale della società, i motivi del fallimento rivoluzionario. I centri del potere coercitivo erano saldamente nelle mani della borghesia e gli stessi operai mancavano di una vera convinzione rivoluzionaria verso la “società socialista”. Molti erano tentati dalla via “sindacale”, che negoziava spazi di ricchezza con la proprietà sfruttatrice, piuttosto che negarla in principio. Insomma, la via Italiana verso la rivoluzione comunista non poteva essere quella bolscevica, aveva bisogno di una diversa, paziente preparazione per poter essere vincente.

Cosi come il cristianesimo si era affermato nell’Impero Romano attraverso una progressiva “egemonia culturale”, anche la “società socialista” necessitava di un cambio della cultura di riferimento. Premessa all’instaurazione del socialismo era, per Gramsci, la progressiva conquista delle coscienze delle masse lavoratrici e di ogni borghese pronto ad accogliere la verità di un nuovo ordine sociale. Cioè “un'egemonia culturale” che consentisse alle élite del partito di occupare le "fortezze e le casematte" del potere borghese, per poi sferrare la spallata finale ad un potere indebolito e reso incerto delle sue verità.

Questo è il corredo culturale e strategico con cui Togliatti si trovò a guidare il partito, fratello di quello sovietico, nella nascente repubblica italiana, presidiata dalle truppe americane. Il fine della "società socialista" e la prassi della conquista delle "fortezze", via egemonia culturale, era non solo un solido riferimento elaborato dal principale intellettuale comunista italiano, ma anche l’unica via consentita dalla situazione geopolitica. Questo riferimento di valori e di prassi resterà patrimonio del PCI, almeno fino a Berlinguer, che prenderà atto di due contraddizioni di fondo dei valori fondanti del partito, emerse nel divenire della società italiana. Il benessere crescente delle masse, generato dall'economia privata, contrastava, per tabulas, con la previsione marxista dello sfruttamento e della povertà crescente dei lavoratori. Ugualmente si mostrava irreversibile il valore della democrazia borghese. La libertà di idee e di partiti in competizione per il potere era diventata oramai patrimonio culturale, non più discutibile, anche delle masse lavoratrici. Insomma la realtà del "miracolo economico" italiano aveva reso anacronistica, nel fine, la missione "gramsciana".

Berlinguer individuò allora nella "diversità etica" la missione residua da assegnare al partito e alle sue élite "comuniste", pensate da Gramsci come una sorta di missionari rivoluzionari a cui affidare il compito di convertire le masse alla società perfetta. In essi risiedeva la “diversità morale” smarrita dall'Italia della ricchezza capitalista e dai Governi corrotti della DC e dei suoi alleati. Il partito "diverso" di Berlinguer restava comunista per la missione morale e non per la fedeltà marxista, che permaneva come etichetta, ma non più come programma. In tal modo si conferiva al partito il compito di moralizzare la politica e garantire uno Stato "giusto" e dunque non necessariamente socialista, ma neanche "borghese". Da qui nasce quella convinzione del PCI e dei suoi eredi di una superiorità morale che nulla giustifica, e che molti danni ha fatto alla sinistra e alla politica italiana, inquinando la laicità dello Stato. In seguito se ne vedranno le nefaste conseguenze.

Ma la tacita "revisione" berlingueriana portava con sè altri due equivoci. Mentre rinunciava di fatto alla "società socialista", non ne dichiarava formalmente l'abbandono. Anzi essa restava implicita nei legami affievoliti, ma non recisi, con la Russia sovietica. Questa eresia "socialdemocratica" non dichiarata ha impedito al PCI di elaborare una sua teoria della ricchezza basata sulla creatività imprenditoriale e non più sulla sola proprietà pubblica, programmata ed ottimizzata dallo Stato. Il PCI di Berlinguer ha accettato l’economia privata, ma non l’ha benedetta, lasciando l'imprenditore in un limbo che comunque resta fuori dall’etica della “società giusta”.

Tangentopoli ha scalfito l’immagine del "partito dei perfetti", ma non l'ha abbattuta. Lasciando da parte i motivi di questa assoluzione, pur parziale, viene da dire che ha consentito al PCI di consolidare l'equivoco di un partito comunista, non più comunista nel progetto politico, ma alternativo alla destra perché geneticamente migliore in quanto "socialmente etico". In questo contesto si capisce come si sia reso possibile l'incontro tra i sopravvissuti della sinistra della DC, distrutta dalle inchieste e il PCI nel frattempo trovatosi anche orfano del collegamento con l'Unione Sovietica e costretto a cambiare nome, ma non identità politica.

La nascita dei DS (ex PCI) somma alle contraddizioni del PCI quelle di una DC contenitore delle varie anime della Chiesa che annovera tra i suoi Santi Ignazio e Francesco. L'obbligo di governo imposto alla Dc dalla Guerra Fredda aveva tenuto nello stesso partito Moro e De Mita, eredi di Dossetti e La Pira e Andreotti, Rumor e Forlani, maldestri eredi di De Gasperi. La fine del pericolo sovietico e la tempesta di Tangentopoli avevano rotto l'unità obbligatoria fella DC. Diventò cosi possibile per l'anima "assistenzialista" della DC e per gli etici continuatori di un PCI senza comunismo, trovar casa comune in un contenitore politico che, tacendo le diversità fondanti, riconoscesse la comune esigenza di giustizia sociale, come generico fattore identitario e la conservazione di spazi di potere amministrativo, come fattore pragmatico.

Con questo partito secondo repubblicano, precedente nella sua realtà politica alla costituzione formale del PD e obbligato alla doppiezza sui valori costitutivi, l'Italia ha dovuto fare i conti per un quarto di secolo, perché inevitabilmente al centro della politica, se non altro perché in lui si sono sommate le capacità della classe dirigente del dopoguerra, ma anche perché le sue contraddizioni hanno facilitato la nascita di un'opposizione di denuncia dei rossi "camuffati" più che di progetto, come il partito mediatico di Berlusconi. Questa somma di equivoci ci ha obbligato negli ultimi venti anni a confronti senza contenuti, a risse delegittimanti e infine alla rinuncia apatica o all'affermazione della inutilità della politica, così evidente da alimentare il travolgente successo di un buffone da piazza.

Perché stupirsi allora se il PCI, DS, PD, dopo inutili cambi di nome e varie scissioni, si trova oggi a celebrare l’ennesima tragedia, oramai tragicomica, di un fragile segretario che denuncia l’ingovernabilità del suo partito, nel pieno della crisi pandemica? Perché stupirsi se l'unico governo efficace possibile risulta oramai essere quello di un Cincinnato chiamato a difendere la Patria, non dal nemico esterno, ma dal caos interno?