L’assai artificiale definizione di 'vino naturale'
Scienza e razionalità
Nessuno attacca il "vino naturale" arbitrariamente, come sostengono talvolta gli attivisti di questo movimento, ad esempio di recente il vignaiolo Daniele Riccardi, intervenuto sul Gambero Rosso. D’altronde l’atteggiamento un po’ vittimistico dei fautori del vino naturale di fronte alle critiche appare incomprensibile: chi lancia una sfida culturale dovrebbe essere pronto a difenderla con argomentazioni di merito. Additare come aggressore chiunque si permette di dissentire sembra altrimenti un espediente retorico per eluderne le obiezioni.
Il problema del “vino naturale” è che si tratta di una terminologia e di una narrazione fuorviante prima di tutto sotto il profilo tecnico-scientifico, perché si fonda sulla distinzione concettuale - quella sì, assai arbitraria e artificiale - tra processo “naturale” e “non”.
Queste contrapposizioni astratte non hanno alcun senso scientifico o razionale, né sul piano teorico né su quello operativo della produzione vitivinicola (e agricola in generale): nella pratica, ciò che si fa in tutte le fasi della produzione è confrontare i trade-off (rischi e costi da un lato, opportunità e benefici dall'altro) tra soluzioni tecniche possibili e disponibili rispetto a problemi e obiettivi specifici (ad esempio di difesa del vigneto, di carenze del suolo o contingenze climatiche, di gestione idrica, di protezione ambientale, di rese produttive, di ricerca stilistica del prodotto finale), e in condizioni specifiche diversissime (un vigneto nella Franciacorta è un altro mondo rispetto a una vigna a Riparbella, o sull'Etna).
Il tutto in un contesto culturale in cui ormai la stragrande maggioranza dei produttori - grandi e piccoli - condivide e adotta i criteri operativi della sostenibilità e della massima limitazione degli interventi e delle lavorazioni, sia in vigna che in cantina, per rispettare il più possibile l'autenticità del prodotto e la sua capacità di esprimere le caratteristiche varietali e del terroir e per ridurre l’impatto ambientale, ottimizzare l’uso delle risorse e l’efficienza del processo (più interventi = maggiori costi).
Dal ricorso alle fermentazioni spontanee, a tecniche per ridurre l’uso dei solfiti, i “vignaioli naturali” insomma non fanno nulla di nuovo, o particolarmente diverso rispetto a quello che fanno tutti gli altri (i quali però non si qualificano come alternativi). In questa valutazione di differenti soluzioni rispetto a specifici obiettivi non ha senso escludere alcuna possibilità, purché fondata su evidenze oggettive: a volte la migliore soluzione è quella antica “del contadino”, altre l’agrofarmaco di origine naturale, altre ancora quello di sintesi, mirato su alcune patologie critiche.
Si parla quindi di agricoltura integrata: un approccio - che può essere esteso senza salti concettuali anche all’enologia - che studia appunto le soluzioni tecniche e le best practices misurate in base ai risultati e agli effetti oggettivi - di qualità, sostenibilità, efficienza - senza escludere nessuna possibilità, e non in base a dogmi ideologici astratti e predeterminati.
Il criterio del “minor intervento”, per essere compreso correttamente, deve essere a sua volta contestualizzato rispetto ai relativi trade-off economici e tecnici: una produzione di milioni di litri implica ovviamente processi organizzativi e tecnologici industriali più complessi e impattanti rispetto alla piccola produzione di poche migliaia di bottiglie. Il che non significa però che tali processi di scala siano intrinsecamente cattivi: spesso quelle realtà, con impegno, ricerche e investimenti, hanno adottato le migliori soluzioni disponibili in termini di impatto e qualità - peraltro sottoposte a regolamentazioni molto stringenti, specie in Europa - che consentono di rendere accessibili ai consumatori vini di qualità decente (certo, non comparabili a un Barolo riserva, o a uno Chateau Petrus) per pochi euro, sugli scaffali dei supermercati.
Insomma, nella realtà produttiva si valutano le soluzioni (poco importa se tradizionali o ultimi ritrovati tecnologici) più adeguate in base alla loro efficacia relativa, ai costi e minor impatto relativo, nella consapevolezza che ricette miracolose non esistono, e tutte, ma proprio tutte, per quanto utili a risolvere questo o quel problema particolare, hanno costi, effetti indesiderati e controindicazioni.
La narrazione che contrappone "natura" (buona) ad "artificio" (cattivo) è quindi difficile da accettare e condividere, se ci si è un minimo a conoscenza della realtà operativa di questo settore. Sul piano commerciale e culturale è una strategia che appare strumentale, perché si basa, nei fatti, sulla logica della denigrazione: qualificarsi come "naturale" implica infatti rivendicare una diversità morale intrinseca rispetto ai produttori "non naturali", che instilla nei consumatori sospetto e paura nei loro confronti e delle loro presunte pratiche dannose per l'ambiente e pericolose per la salute. Quando la strategia va a buon fine sono tutte marginalità aggiuntive per chi la applica.
Li si può definire "margini della calunnia" derivanti dal fatto che si è riusciti a praticare prezzi più alti e aumentare le vendite, mettendosi al riparo dei concorrenti convincendo i consumatori che i loro prodotti sono cattivi o eticamente riprovevoli.
* L'autore è giornalista e produttore vinicolo