Cosa c'è che non va nell’ideologia del vino naturale
Strade del Cibo
Ci sono alcune valide ragioni per cui bisognerebbe andare cauti nell'utilizzare espressioni come "vino naturale", o "pratiche naturali" nella coltivazione della vite e nella produzione del vino, e in generale, in agricoltura. La prima è che si trasmette al consumatore e al pubblico una idea assai superficiale, fuorviante e distorta della viticoltura e dell’enologia. Così facendo, sì fa un danno a tutti: ai produttori, ai consumatori, e in generale si svilisce moralmente un settore, come sempre avviene quando si diffondono più o meno consapevolmente informazioni errate, creando un clima di sospetti e malevolenze.
La contrapposizione tra l'immagine bucolica del "vignaiolo" (un tempo si era orgogliosi dell'appellativo "viticoltore", che denota competenza scientifica e tecnica, e si sarebbe considerato dispregiativo questo termine amatoriale) in salopette e cappellone di paglia, che magari ha abbandonato la stressante vita urbana per riscoprire i ritmi e i valori di una vita in armonia con la natura, e quella dell'agroindustria spersonalizzante, che cannibalizza le risorse e standardizza i prodotti in nome del profitto, è ingiustificata. Proviamo a spiegare il perché, a partire da una premessa generale.
Ma prima è doverosa una precisazione: queste considerazioni non intendono denigrare i vini prodotti da chi si proclama “naturale”. Vi possono essere ottimi o pessimi vini “naturali”, ma lo sono a prescindere dal fatto che siano qualificati come tali. Per fortuna, l’ideologia non ha nessuna influenza sulla composizione chimica e sulle caratteristiche aromatiche e organolettiche del vino: in generale si parla di vini buoni o cattivi, a prescindere dal colore dell’etichetta o dalle convinzioni ideologiche di chi produce e di chi assaggia. Qui ci si propone di mostrare l’inconsistenza e i pericoli di una ideologia, non di esprimere giudizi sui prodotti.
L’equivoco degli “standard” in agricoltura
L’agricoltura è un processo produttivo complesso in cui non è molto appropriato parlare di "standard", come in altri settori. Un'azienda meccanica può organizzare una procedura standard di fabbricazione di un componente, che prevede un numero preciso di operazioni sempre uguali. Una volta messo a punto il processo, questo è interamente sotto il controllo dell'operatore, ed è replicabile ovunque.
L’agricoltore, invece, si trova in una situazione analoga quella di un medico: si deve confrontare con situazioni e problemi specifici spontanei e complessi, più o meno ricorrenti e più o meno anomali, ma sempre un po’ diversi tra loro. Per farlo, proprio come un medico, ricorre a un bagaglio di strumenti e competenze che derivano dalla ricerca scientifica e tecnologica, dall’esperienza personale e dalla tradizione, cioè dalle conoscenze accumulate dalla storia della casistica agricola.
In questa prospettiva, stabilire standard produttivi “naturali” o “alternativi”, contrapposti a quelli “convenzionali”, o sarebbe più appropriato “tecnologici” è un’operazione ideologica arbitraria e infondata. In realtà tutto è “naturale”, nel senso che le leggi della fisica o della chimica o della biologia lo consentono. Il punto è invece, proprio come in medicina, impiegare le migliori e più aggiornate conoscenze e tecnologie disponibili, spesso multidisciplinari, nel perseguimento dei risultati più soddisfacenti in termini di resa e qualità dei prodotti, e di riduzione dell’impatto ambientale e dei rischi per la salute.
È l’approccio dell’agricoltura cosiddetta “integrata”, perché appunto integra competenze diverse, derivanti da scienza e tradizione, per ottenere il miglior risultato possibile. Che senso avrebbe, anche sotto il profilo etico, utilizzare una tecnica “antica”, artigianale o una sostanza di origine naturale, se è meno efficace, più inquinante e impattante dell’ultima risorsa messa a punto dalla ricerca scientifica e tecnologica chimica, o genetica?
Viticoltura e enologia tra scienza, tecnologia e tradizione
Tornando al settore specifico della viticoltura è importante sapere che ci si confronta con due ordini problemi: quelli relativi alle scelte “strutturali” di impianto iniziale, legate a fattori come la composizione del suolo, l’esposizione, il clima, le varietà, che condizionano tutto il ciclo di vita della piantagione - in media di circa 40 anni - e quelli relativi alle situazioni incidentali che insorgono durante il ciclo produttivo annuale, collegati alla stagionalità, alla variabilità meteorologica, all’insorgere di carenze, malattie e parassiti. È essenziale quindi comprendere che, su entrambi i livelli, parlare di standard “convenzionali” o “alternativi” non ha alcun valore informativo. Occorre valutare caso per caso nel modo più razionale possibile, e facendo affidamento su tutte le conoscenze messe a disposizione dalla scienza e dalla tradizione (verificata dalla scienza). Un vigneto nell’area pianeggiante e mediterranea del Primitivo di Manduria richiede valutazioni di impianto e di gestione annuale e stagionale molto diverse da quelle di un Pinot nero montano dell’Alto Adige: sono tutte naturali, alcune migliori, altre peggiori.
Il carattere arbitrario delle etichette “ideologiche” che affibbiano standard e patenti etiche, è evidenziato anche dalla complessità del rapporto tra le scelte strutturali e quelle di gestione: errori di impianto possono determinare carenze e debolezze croniche nella piantagione e peggiori rese qualitative e quantitative (in difetto o eccesso) per compensare le quali sarà necessario moltiplicare gli interventi di gestione annuale, difensivi e compensativi. Anche se si segue un approccio “naturale” ciò significherà spreco di risorse e energia a parità di rese qualitative e quantitative, e quindi maggior impatto.
In generale, le scelte “biologiche” o naturali, non necessariamente impattano meno di quelle “tecnologiche”. Da un’analisi comparativa dei margini di contribuzione lordi per ettaro (che evidenziano i costi variabili, come gli agrofarmaci o l’energia) di coltivazioni vinicole “biologiche” e “convenzionali” per vino di qualità comparabile, contenuta nell’ultimo rapporto Crea sull’agricoltura biologica basato su dati Rica (Rete di informazione contabile agricola) e riferita agli anni 2015-16, emerge una sostanziale analogia di costi pari a circa 1.500 euro/h al nord, 850 euro/h al centro, 830 euro/h al sud, a fronte di rese del -12% al nord, -5% al centro, -1% al sud. Si riscontra poi che il biologico spende meno per trattamenti di difesa fitosanitaria (-26% al nord, -15% al centro, -32% al sud) ma molto di più in consumo energetico (+60% al nord, +44% al centro, +71% al sud) con relativo impatto. In breve: il vino biologico comporta un impatto spesso maggiore a parità di resa: utilizza forse meno farmaci per le piante – il ché, come detto, non significa necessariamente maggior rispetto dell’ambiente e della salute – ma consuma più energia, la cui produzione ha come noto un impatto significativo.
Considerazioni analoghe possono essere fatte sulla parte enologica del ciclo produttivo. Anche nel caso della vinificazione, parlare di standard convenzionali o alternativi è semplificatorio e fuorviante. L’impostazione di una cantina, la scelta delle tecnologie (vasche e tini di fermentazione, sistemi di controllo della temperatura, stazioni di pompaggio ecc.), della disposizione e organizzazione degli ambienti, avrà un impatto determinante nella messa a punto del processo di trasformazione della materia prima in vino, e nel suo successivo affinamento.
Né si può ridurre il discorso, come spesso avviene, alla scelta di una fermentazione spontanea, e quindi “naturale”, o avviata grazie a lieviti selezionati. Si tratta anche qui di una rappresentazione ideologica distorta e piuttosto arbitraria di una scelta produttiva. A parte il fatto che i lieviti selezionati sono anch’essi “naturali”, l’argomento andrebbe affrontato nel contesto più ampio delle innovazioni e dell’evoluzione del settore nel suo complesso e delle sue caratteristiche di “alta intensità di capitale” e di incognite e rischi intrinseci all’attività di produrre vino.
La possibilità di utilizzare i lieviti spontanei è nota da sempre ai produttori di vino, ma presenta molti rischi e criticità, come arresti di fermentazione e sviluppo di batteri nocivi, che possono compromettere un’intera annata, con danni economici ingenti. Negli ultimi decenni, tuttavia, vi è stato, da un lato, un forte impulso di mercato alla differenziazione dei prodotti e alla ricerca di qualità locali e specifiche guidato da un forte aumento della domanda di vini di qualità e “tipici”. Dall’altro, l’evoluzione delle tecnologie enologiche e degli spazi in cantina, ha consentito un controllo sempre più accurato e preciso del processo di masse in fermentazione. Questi fattori hanno consentito ai produttori di fare efficienza sui processi – ad esempio hanno ridurre l’uso di anidride solforosa – e interessarsi e orientarsi sempre più sulla ricerca e sviluppo di tecniche di fermentazione “spontanea”, basata, ad esempio, su lieviti selezionati “indigeni”, prelevati nel proprio vigneto.
Ma siamo lontani dalla retorica del ritorno al “vino del contadino”. L’enologia della “fermentazione spontanea” così come quella della riscoperta delle originalità varietali locali, è resa possibile da investimenti, tecnologia e ricerca scientifica, non certo dalla retorica del “biologico”.
Il marketing del vino alternativo e il “margine della calunnia”
I motivi, infine, per cui è ragionevole diffidare della propaganda del vino alternativo e “etico” (definizione generica di comodo per includere le varie varianti, dal biologico, al biodinamico, al naturale, all’artigiano), riguarda i suoi effetti in termini di distorta informazione commerciale ai consumatori, e quindi in termini di danni al mercato nel suo complesso.
Un primo aspetto da rilevare è che gli obiettivi cambiano a seconda delle fasce di mercato: un grande produttore da milioni di bottiglie segue logiche produttive diverse dal piccolo produttore di nicchia che punta alla massima qualità. Il prodotto di quest’ultimo è senz’altro superiore, ma qualsiasi confronto è fuorviante se non contestualizzato alle rispettive fasce di prezzo e di consumo. Il produttore “industriale”, specie se esposto a forti pressioni concorrenziali ha con ogni probabilità ottimizzato al massimo i fattori produttivi per proporre ai consumatori il prodotto migliore in termini di qualità e impatto ambientale – è impossibile produrre milioni di bottiglie a prezzo basso con le pratiche manuali di una piccola azienda – in una fascia di prezzo più bassa e accessibile a tutti, che sarebbe assurdo comparare con quella di un Sassicaia o di uno Chateau Lafite.
Ma soprattutto, vi è una ragione etica che spinge a prendere le distanze dal marketing del vino naturale. Come già argomentato in altra sede, la propaganda del “vino naturale” si configura, nei fatti, come una vera e propria campagna di discredito da parte di produttori che si definiscono “alternativi” a danno dei concorrenti “tecnologici”, che garantisce ai ricavi dei primi una quota definibile come “margine della calunnia”. Come emerge sempre dal rapporto Crea sull’agricoltura biologica, a fronte di rese più contenute i vini biologici hanno in Italia prezzi medi più alti del 30% di quelli non biologici nel centro-settentrione e del 15% nel meridione.
Questi prezzi più alti del vino “naturale” non derivano da ragioni oggettive di migliore qualità o di “diversità intrinseca” ma rappresentano un margine creato dalla campagna di discredito dei produttori “tecnologici”, bollati come inquinatori e sfruttatori di risorse, agli occhi dei consumatori. Senza la protezione di questa convinzione indotta, infatti, i vini “naturali” non potrebbero sostenere la concorrenza di quelli integrati, che grazie a una maggiore efficienza – rivolta anche al rispetto di ambiente, salute e tradizioni – possono praticare prezzi più bassi.