foresta israele grande

Nel suo romanzo del 2005 "D’un tratto nel folto del bosco" lo scrittore israeliano Amos Oz immaginava un mondo dove tutti gli animali sono scomparsi nel nulla, lasciando un vuoto incolmabile nell’animo delle persone. Un giorno, due bambini partono dal loro villaggio alla ricerca degli animali perduti, per scoprire che fine hanno fatto.

A metà tra la fiaba per bambini e la distopia post-apocalittica, questa storia trasmetteva l’idea che senza la natura l’uomo è incompleto. Più in generale, da decenni gli israeliani hanno a cuore il tema dell’ambiente, a prescindere dal colore politico. Questo anche perché, vivendo in una regione calda e prevalentemente desertica, risentono più degli europei degli effetti della siccità e del cambiamento climatico.

Non è un caso che il KKL (Keren Kayemeth LeIsrael, il “Fondo Nazionale Ebraico”), fondato a Basilea nel 1901, è considerato una delle prime organizzazioni ambientaliste della storia moderna. Da sempre le loro attività consistono principalmente nel piantare alberi in Terra d’Israele e combattere la desertificazione.

In origine si occupava di acquistare terreni dai possidenti arabi nell’allora Impero Ottomano, per creare i futuri insediamenti per gli immigrati ebrei. Ad oggi, il KKL risulta aver piantato oltre 250 milioni di alberi in Israele, che ricoprono oltre 250.000 acri di terreno, con una media di 3 milioni di nuovi alberi ogni anno.

Questo non è l’unico traguardo raggiunto da Israele nel cercare di fare crescere il verde in mezzo al deserto: da decenni lo Stato Ebraico è un pioniere nell’irrigazione a goccia, tanto che già nel 2015, quando presentò i propri risultati all’Expo di Milano, l’agricoltura rappresentava circa il 2,4 del Pil e il 2% delle esportazioni, mentre il 60% della produzione agricola proveniva dal deserto. Israele produceva oltre il 90% del proprio fabbisogno alimentare, e il settore dava lavoro a 2,7 milioni di persone, su un totale di 9 milioni di abitanti.

Israele ha anche fatto passi avanti nella tutela degli animali: nel giugno 2021 è diventato il primo paese del Medio Oriente a mettere al bando le pellicce. Mentre nel marzo 2017 ha emanato una legge tale per cui nei mattatoi è diventato obbligatorio avere telecamere a circuito chiuso, che riprendano 24 ore su 24 tutto quello che accade all’interno. Le registrazioni, poi, vengono analizzate dal servizio veterinario del Ministero dell’Agricoltura, che segnala eventuali infrazioni legate a maltrattamenti degli animali.

Queste loro politiche non nascono solo da necessità pratiche, ma anche da motivazioni religiose: nell’ebraismo esiste un concetto noto come Tikkun Olam, “riparare il mondo”. In pratica, è la responsabilità che ogni ebreo deve assumersi per rendere ogni giorno il mondo un posto migliore, e lasciarlo meglio di come l’ha trovato.

Nonostante tutti questi risultati, Israele viene spesso attaccato dagli ambientalisti di estrema sinistra; basti pensare alle posizioni filopalestinesi espresse da Greta Thunberg dopo il 7 ottobre, talmente estreme che persino la sezione tedesca dei Fridays for Future si è distaccata dall’organizzazione centrale.

Gli stessi ambientalisti che oggi attaccano lo Stato ebraico, in molti casi hanno taciuto quando, nel 2018, Hamas ha bruciato numerosi ettari di terra in Israele con palloni e aquiloni incendiari, uccidendo innumerevoli animali selvatici. Alla base di questo doppiopesismo vi è l’intersezionalità, ovvero la concezione distorta secondo cui le varie cause progressiste, dall’ambiente alle minoranze, fanno parte di una lotta comune per la giustizia sociale. In tal modo, si attaccano coloro che inquinano solo se associati all’Occidente e al capitalismo, meno o per niente se a farlo sono popoli visti come “oppressi”.

Questi preconcetti non prendono di mira solo Israele: una ricerca condotta dal sito britannico Carbon Brief e pubblicata il 26 novembre, alla vigilia della Cop28, ha cercato di attribuire ai paesi europei la colpa per l’inquinamento che, a decenni dalla fine del colonialismo, producono ancora oggi le ex-colonie. In sostanza, si incolpava il Regno Unito anche per l’inquinamento in India, o l’Olanda per l’inquinamento in Indonesia.

Veniva risparmiata da questa colpevolizzazione invece la Cina, nonostante sia oggi il maggiore produttore di CO2 al mondo, solo perché la produzione è quasi tutta interna.

Il modello ecologico israeliano può rappresentare un’alternativa vincente all’ambientalismo ideologico delle sinistre radicali. Perché fondato non su una visione ideologica, ma sulla necessità di trovare soluzioni concrete a problemi reali.