E ora andiamo a caccia. Di un dibattito serio
Scienza e razionalità
Il referendum sulla caccia non si terrà. Ben 177.000 delle 520.000 firme raccolte non erano valide, dunque la Cassazione non ha dato il via libera.
È una buona notizia?
In un certo senso sì, ma non per chi festeggia lo “scampato pericolo”. Il confronto infatti è stato solo rimandato.
La condanna della violenza contro gli animali intesi come singoli esemplari è una tendenza di lungo corso, visibile in tutte le società W.E.I.R.D. (bianche, istruite, industrializzate, ricche e democratiche, e perciò, come dice la parola, strambe), che presto o tardi sfocerà per forza in un voto dall’alto valore simbolico.
È solo questione di tempo.
È facile immaginare un comitato meglio organizzato e meno dilettantesco che tra qualche anno riesca nell’impresa di far convocare la consultazione. E a quel punto i nodi verranno al pettine.
La buona notizia, quindi, è che l’opinione pubblica non è stata strattonata dentro questo confronto all’improvviso, alla cieca e gravemente impreparata.
Abbiamo guadagnato tempo per parlare della caccia, e in generale della tutela degli ecosistemi, con più cognizione di causa.
Provo a darne un piccolo esempio.
Sarebbe facile ricorrere al solito argomento anti-proibizionista: “Se lo legalizzi lo puoi regolamentare, se invece lo vieti verrà fatto lo stesso e senza regole”. Il dibattito finirebbe lì e la caccia resterebbe legalizzata “come male minore”.
Ma una risposta così sbrigativa lascerebbe insoddisfatte due grosse categorie di persone.
La prima è quella di chi comunque si concede ancora il lusso di domandarsi cosa sia giusto e cosa sia ingiusto, nella convinzione che alcune ingiustizie troppo estreme non debbano essere permesse dalla legge nemmeno in un’ottica pannelliana di “riduzione del danno”.
La seconda è quella di chi vuole indagare fino in fondo se la caccia sia davvero solo “un male”, e se l’unica utilità che può avere sia davvero smettere di esistere.
Qui si consuma però una spaccatura decisiva. Per pensare che sparare a un cervo o a una volpe sia un male talmente assoluto da dover essere proibito ad ogni costo, è necessario l’intervento di una credenza filosofico-religiosa personale: quella per cui gli animali sono intangibili e sacri in quanto singoli esemplari, e meritano di entrare in quanto individui nel patto sociale stretto tra gli umani, per godere della stessa protezione di cui godono questi ultimi. Si arriva persino a parlare di diritti del singolo animale, qualcosa che in natura non esiste, dal momento che un diritto è garantito solo là dove c’è un umano che si impegna a rispettare un dovere corrispondente (“diritto alla vita” / “non uccidere”, “diritto alla proprietà” / “non rubare”, “diritto alla salute” / “cura i pazienti”…).
Era questo il sentimento sul quale ha fatto leva il comitato che ha raccolto le firme. Le eventuali dimostrazioni pratiche dell’inutilità della caccia arrivavano a valle, come appendici marginali, raggranellate in tutta fretta per difendere il vero movente di fondo: l’orrore per la violenza contro un singolo animale, da evitare sempre e comunque. Una fede che esonda nelle prediche moralistiche contro “la violenza come divertimento” (come se poi il divertimento della caccia stesse nei brevi istanti della violenza e non piuttosto in tutto ciò che la circonda), segno ulteriore che è tutta concentrata sull’uomo, su quali azioni è sconveniente che l’uomo compia, addirittura su quali sentimenti è sconveniente che l’uomo provi. Una fede antropocentrica, come un po’ tutto l’animalismo.
Una fede che, però, va a schiantarsi contro un’evidenza dell’ecologia scientifica: per proteggere un ecosistema si deve ragionare in termini di equilibrio fra le specie. Se una specie cresce troppo di numero, diventa un pericolo per le altre e a volte anche per se stessa, dunque ridurre la popolazione di un certo animale in un certo territorio a volte si rende necessario. È questa necessità ecologica che deve essere tenuta in conto dal decisore pubblico, e che, qualora entri in contrasto con la scelta filosofico-religiosa animalista di alcuni umani, deve laicamente prevalere. Per quanto in politica sia sempre fuorviante parlare di “amore”, “odio” e altre emozioni soggettive, semplificando si può dire: a volte “amare la volpe” è in contrasto con “amare ogni volpe”, “amare il cervo” impedisce di “amare ogni cervo”.
È qui che entra in gioco il secondo gruppo di persone di cui parlavo prima, che è quello interessato a un dibattito sereno e razionale.
La domanda che lo muove, come ricorderete, è: “Ma la caccia è davvero completamente inutile?”
Una domanda che si può articolare in più domande specifiche:
- È sempre possibile ridurre una popolazione animale attraverso cattura, sterilizzazione o rimozione? O a volte può essere utile l’uccisione?
- Se può essere utile, è proprio necessario affidarla sempre a professionisti pagati? O la si può delegare in parte a dilettanti paganti?
- Scegliere sempre professionisti pagati ha costi sostenibili? Considerando, ad esempio, anche la manutenzione dei boschi e dei sentieri, che oggi i cacciatori contribuiscono a fare gratis?
- Ci sono abbastanza professionisti formati per sostituire centinaia di migliaia di cacciatori dilettanti (peraltro in calo inesorabile da anni)?
- Il costo di severi controlli sull’attività venatoria potrebbe superare i benefici di quest’ultima?
L’importante è avere sempre ben chiaro che l’obiettivo ultimo non è quello spiritualeggiante di non profanare con la violenza nessun singolo animale, ma quello laico e concreto di preservare l’equilibrio tra le specie.
In questa cornice potranno pronunciarsi senza timore anche le grandi associazioni ambientaliste e i partiti politici: gli stessi che, durante la raccolta firme subordinata all’istanza sbagliata (quella spiritualeggiante), hanno preferito mantenere un prudente silenzio.
Abbiamo ottenuto del tempo in più, contro ogni previsione.
Non sprechiamolo.