Palma mani odio

Trecento pagine senza giudizi di valore, senza attribuzione di significati deteriori a una democrazia tacciata perennemente di essere in crisi, ma forse solo in costante e non più facilmente comprensibile evoluzione. Un'operazione accademica di servizio pubblico e profonda onestà intellettuale radicata in una ricca letteratura condannata all’interdisciplinarietà per poter afferrare la complessità del reale. Una coscienziosa presa d’atto tutt’altro che allarmistica e che anzi richiede e richiama a inediti sforzi euristici, basati ora necessariamente più sulla domanda, sul demos appunto, che sull’offerta politica.

“Demopatìa” di Luigi Di Gregorio (Rubbettino) ha il merito di parlare direttamente al lettore scardinando quella torre d’avorio in cui l’accademia politologica e gran parte della politica tradizionale si è comodamente rinchiusa, non senza vocazioni pedagogiche, rinunciando a capire le trasformazioni pre-politiche in atto e limitandosi a giudicarle. In questo viaggio in corsia, mentre sulla barella giace la democrazia liberale, il lettore in fondo è parte del demos, è parte di quel soggetto malato che Di Gregorio con approccio clinico analizza nel volume sotto i raggi x della sociologia, della psicologia, della comunicazione politica sempre più fondata sui social network. E il buon medico sa che a un malato ci si approccia sempre con rispetto e ascolto, senza imporre dall’alto cure, ma accompagnando alla guarigione.

Seguendo lo schema sintomi-diagnosi-terapie, Di Gregorio indica al lettore come riformattare secondo nuovi canoni – per comprenderli – i concetti di partecipazione, rappresentanza e accountability, ormai consumati e divorati da una fast politics che è lo specchio della società del consumo, cadenzata da mezzi di comunicazione immediati e disintermediati. È questa velocità autofagocitante a scatenare nel demos schizofrenia, istinti di massa e follie di folla, psichedelia di valori senza ideologie, fino a creare un’emozione pubblica che soppianta l’opinione e archivia definitivamente l’utopistico modello del cittadino informato, pur sempre blandito da partiti e politici tradizionali.

Sotto i colpi della sondocrazia e del narcisismo, sembra dissolversi insomma ogni appello alla razionalità e alla ragione, ma è da questa consapevolezza che Di Gregorio parte per tracciare possibili terapie. Senza prescrizioni inflessibili, senza gridare “O tempora, o mores”, senza assoluzioni e rassegnazione, ma con la certezza dell’inutilità di nostalgici e romantici ritorni al passato, sovranismi e comunitarismi inclusi. L’invito insomma è a percorrere le voragini che oggi temiamo come se fossero nuovi obbligati solchi. La presunta deriva è molto più probabilmente solo una insolita rotta.

 

Tra i sintomi del malessere democratico sul lato dell’output, vi è la cosiddetta “crisi da sovraccarico”: già dagli anni Settanta le democrazie devono far fronte a richieste ed aspettative che non riescono a soddisfare con i loro apparati statali e burocratici. Come si può dunque soddisfare un demos che sempre più manifesta problemi più percepiti che reali? Può soddisfarlo un’offerta politica sempre più internamente incoerente?

Alla base di questo sintomo ci sono due vicoli ciechi:

1) i tempi della politica, in campagna permanente, sono ormai schiacciati sui tempi dei media e dell’opinione pubblica. Vale a dire che domina il tempo reale. L’amministrazione, ossia la “macchina” che dovrebbe implementare e mettere in opera le risposte politiche alla domanda pubblica, viaggia su tempi diversi, necessariamente. Per ragioni giuridiche e per ragioni logiche, direi. Per intenderci, il codice degli appalti ha le sue “lungaggini” previste per legge, ma ha anche le sue ragioni. Se una gara da milioni di euro ha tempi non comprimibili ha un suo perché. Anzi, ha tanti perché, tutti validi. Questo trade off tra tempi della politica e tempi dell’amministrazione è un primo problema.

2) Il “mondo” che viaggia sul tempo reale viaggia anche su una realtà sui generis. Le priorità della politica, dei media e dell’opinione pubblica molto spesso non sono le reali priorità del paese. Sono solo quelle più notiziabili, quelle che catturano più facilmente l’attenzione del demos e lo mobilitano emotivamente.

Viceversa, esiste una realtà non visibile che è indubbiamente più importante, di cui la politica si occupa, ma lo fa per certi versi all’oscuro del controllo pubblico (mediatico e dei cittadini), lontano dai riflettori. Ad esempio, in questi ultimi anni mi pare evidente che le questioni centrali per l’opinione pubblica siano legate alla sicurezza, all’immigrazione, ai rapporti con l’Ue, allo stile e ai comportamenti politici e alla loro etica. Se provassimo a chiedere all’Amministratore Delegato di Eni o di Enel (le prime due aziende italiane) quali sono per loro le priorità del paese, non troveremmo nessuno di quei punti tra le loro risposte. Avremmo verosimilmente la politica energetica, quella infrastrutturale, gli investimenti in ricerca e sviluppo, la politica estera e comunitaria, ecc.

Questo è un altro vicolo cieco, dunque. C’è una politica ipervisibile in campagna permanente – e dunque in propaganda permanente – che si muove seguendo la realtà “mediaticamente determinata” dai fatti notiziabili e c’è una politica invisibile che si occupa delle reali priorità del paese, all’oscuro dell’opinione pubblica. Per fortuna c’è, ma non è comunque un buon segno. Non possiamo essere soddisfatti di un demos che si agita e si mobilita su questioni secondarie (convinto che siano primarie) e di una politica che affronta le reali priorità fuori dal nostro controllo. In ogni caso, mi pare fin troppo evidente che questo sistema sia gratificante nel breve periodo, ma perdente nel medio-lungo termine. Non fa che alimentare la “cerimonia cannibale” e la depressione democratica di cui parla Christian Salmon. Di fatto, non fa che alimentare la nostra insoddisfazione.

 

Durante la diagnosi del malessere democratico sembra emergere con forza la convinzione che alla luce dei diversi input esterni il demos non poteva che essere così e che dunque non può essere condannato perché in sostanza non c’è altra alternativa. Quale delle trasformazioni sociali che analizzi è stata più penetrante e soprattutto è la più irreversibile?

Sono tutte potenti e penetranti. Forse anche irreversibili, perché andare contro la storia e contro la società si può… ma di solito ci si fa parecchio male. La mia ricostruzione mira a far emergere come la modernità abbia “automaticamente” prodotto la post-modernità, come la società dei consumi abbia invaso con le sue logiche tutti i settori della nostra esistenza e come le innovazioni tecnologiche ci abbiano trasformato in profondità.

La digital transformation non è tanto una transizione tecnologica, è una transizione antropologica. E non vale solo per il passaggio all’era del digitale, vale sempre. Dall’invenzione del fuoco e della ruota fino a Whatsapp… ogni nuova tecnologia cambia il nostro modo di percepire le cose, di ragionare e di comportarci. Cambia il nostro modo di vivere. Per questa ragione io tendo a non dare “colpe” o “responsabilità” ai social network o alla televisione prima di essi, dico semplicemente che questi mass media hanno delle logiche e delle regole proprie. E quelle logiche e quelle regole ci hanno cambiato, come cittadini, come consumatori e come elettori.

 

La democrazia liberale è sempre stata associata a pluralismo e politeismo di valori. Quando e come è avvenuta la torsione verso disgregazione e anarchia valoriale? Questo processo è reversibile o quanto meno rigenerabile? La chiave può essere il modo in cui viene esercitata la libertà? L’eccesso di democrazia ha ucciso insomma la democrazia?

Quando dico che la modernità ha prodotto la post-modernità intendo dire proprio questo. Il fulcro del pensiero moderno ha di fatto sostituito la “dea ragione” al “dio religioso”, la ricerca della felicità terrena a quella ultraterrena, la conoscenza scientifica alle spiegazioni metafisiche. Di fatto ha prescritto pluralismo e individualizzazione, spingendoci a mettere in discussione tutte le nostre credenze stabili e consolidate. Così facendo, abbiamo messo in discussione tutto… dalla religione alle ideologie, dallo Stato ai partiti, dalla patria alla scuola, dalle istituzioni alla famiglia, fino alla scienza. Smontando tutte queste credenze stabili, l’individuo resta solo perché dietro ogni credenza c’è una comunità solida. Solo e privo di bussole per orientarsi, il cittadino occidentale si è rifugiato necessariamente nel suo “mondo psicomorfo” per dirla con Richard Sennet, o nel narcisismo per citare Christopher Lasch.

Il benessere psico-fisico individuale diventa la nostra prima e (forse) unica esigenza vitale. Gli altri diventano “specchi” su cui misurare le nostre performance, le comunità diventano effimere perché cementate su credenze instabili, temporanee. Il presente, anzi l’istante, diventa il nostro principale orizzonte temporale. E la gratificazione immediata sostituisce la felicità ultraterrena ma anche semplicemente una gratificazione ritardata. Vogliamo tutto e subito. Usiamo e gettiamo.

 

La proletarizzazione del ceto medio ha reso la domanda politica sempre meno moderata, il grado di alfabetismo funzionale l’ha poi radicalmente semplificata. Come si incrociano questi due fenomeni sociali con le sindromi psicologiche che descrivi nel libro?

A mio avviso c’entrano relativamente. Non tutto ciò che conta è solo “percepito”, ma a mio avviso il percepito (e l’autopercezione) contano molto di più dei dati reali. È ormai dimostrato che molta gente vota anche contro i propri interessi materiali, perché vota per ragioni simboliche, ossia psicologiche. Peraltro spesso mossa da questioni secondarie – per il singolo e per il paese – ma assolutamente prioritarie in ottica di mobilitazione emotiva. Certo, l’analfabetismo funzionale conta, ma non è a causa sua se abbiamo i social invasi di odiatori di professione e di polarizzazione del dibattito pubblico. È, di nuovo, il format mediale che lo impone. Per intenderci, sulla questione “no vax” ci sono diverse ricerche empiriche che dimostrano che le due parti in causa (pro o contro i vaccini) si comportano allo stesso modo. Ovviamente per me una ha ragione e l’altra no, ma la polarizzazione è insita nel mezzo, che non fa che esaltare alcune caratteristiche umane, in primis il gruppismo. Ci siamo evoluti con l’idea che “l’unione fa la forza”, cerchiamo continuamente nuove appartenenze per ragioni di sopravvivenza. Ma quando entriamo a far parte di un gruppo diventiamo tifosi, cioè perdiamo di vista il giusto, il bene e la verità se questi possono danneggiare il nostro gruppo.

È evidente che strumenti come Facebook, basati su algoritmi che confezionano bacheche “su misura”, non facciano che alimentare queste tendenze. Se io vedo ogni giorno (quasi) solo post che confermano le mie tesi, mi convinco che la mia non sia un’opinione, bensì “la verità”. Di conseguenza, quando mi confronto con qualcuno che la pensa diversamente, automaticamente sono portato a trattarlo come un ignorante o un pazzo che non vede o non capisce quale sia la verità. Tuttavia, anche quel qualcuno viene da una bacheca in cui è confortato dai numeri e dai post che vede. E dunque anch’egli si sente depositario di una verità. E quindi, il confronto tra opinioni fallibili diventa automaticamente uno scontro tra verità granitiche. Colpa dell’algoritmo? No…semplicemente l’algoritmo rafforza una nostra tendenza evolutiva e psicologica. Ci studia e ci confeziona il mondo su misura. Il che va benissimo per i consumatori, malissimo per i cittadini.

 

Approfondita e rigorosa, ma non severa è la disamina del ruolo dei media nell’accelerazione della demopatia. Media come stampa e tv vanno assolti al pari dei politici? La demopatia viene prima o dopo della mediopatia?

Io tendo a non dare colpe nel libro perché provo spesso a ragionare con ipotesi controfattuali, con la contro-intuizione. Può un politico serio, competente, rigoroso, coerente e di conseguenza non battutista, non iper-semplificatore e banalizzatore catturare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica oggi? No. Sarebbe mediaticamente invendibile e per noi assolutamente non percepibile, una specie di rumore di fondo. Allo stesso modo, può un giornale o un talk show politico evitare di spettacolarizzare, di dare centralità alle immagini, alle battute a effetto, agli interventi brevissimi, al continuo cambio di ospiti e di inquadrature, al sensazionalismo e al gossip? No. Di nuovo, sarebbe mediaticamente invendibile e per noi non percepibile. È colpa di politica e media adeguarsi al loro mercato? Forse si, ma forse no. Nel senso che è vero che l’offerta può creare la domanda, ma ci vorrebbe un’offerta diffusa e potente. Se tutti gli organi di stampa cambiassero all’unisono allora forse si. Ma come lo si può pretendere? Come si può chiedere a tutti i media di non seguire la media logic? E conseguentemente come possiamo chiedere a tutti i politici di fare la stessa cosa?

 

In un talk show su La7 l’ex presidente del Consiglio, Mario Monti, chiese al pubblico di astenersi dagli applausi perché lo interrompevano nel fare un ragionamento serio. Può essere questo aneddoto una chiave di lettura del nuovo rapporto tra pubblico e show business, tra consenso e relazione con la verità?

Mi pare un caso isolato, appunto. E abbiamo visto come sia cambiata la popolarità di Monti quando è passato da “chirurgo temporaneo” dei mali del paese a candidato premier. Viceversa, mi pare molto più emblematico Di Battista quando si lamenta che il pubblico non lo applaude, a Di Martedì. E lo fa con ragione. Di Martedì è esemplare in tal senso per capire cosa sia oggi la media logic: un numero di ospiti infiniti, interviste brevissime con risposte a mo’ di tweet, argomenti più disparati, cambi di inquadrature continue… tutto è concepito per non far annoiare lo spettatore. Il quale spettatore, in questo luna park di emozioni, arriva al paradosso per cui applaude tutti in continuazione, anche politici che hanno posizioni opposte. Perché non ha il tempo di riflettere su ciò che ascolta. Non è l’applauso a un concetto, è l’applauso a una bella frase, a una performance televisiva. Per cui, di nuovo, ben venga chi prova a fare inversione a U, come Monti con gli applausi, ma resta un episodio isolato e che rema contro corrente. Io, ad esempio, se fossi un candidato premier e mi chiedessero “ci dica come risolvere la questione libica in 30 secondi”, mi alzerei e me ne andrei… per rispetto di chi ascolta. Ma cosi facendo avrei risolto qualcosa? No… avrei solo dato l’impressione di non sapere come risolvere la questione libica.

 

Con l’ingresso nell’era digitale, tra self promotion ed echo chambers, il narcisismo si è amplificato. Perché sul lato della domanda questo narcisismo non si è tradotto in più impegno politico e in sostanza ha reso ancora più passivo il senso della cittadinanza? Come spiegare invece il nesso tra narcisismo e cattivismo?

Sul cattivismo abbiamo già detto. Credo ci sia un fattore legato al format mediale e al rafforzamento, quasi al “doping”, delle opinioni che spinge verso la polarizzazione anche nei toni e nel linguaggio. Poi aggiungiamoci che i social non sono un bar, come ogni tanto sentiamo dire. In un bar io mi confronto con poche persone. E davanti a poche persone posso anche ammettere di aver sbagliato, dare ragione agli altri e cambiare idea (per quanto è comunque un atteggiamento che ha i suoi costi). Ma in pubblico, davanti a migliaia di persone subentrano altri fattori: orgoglio, social desirability, personalità, riconoscimento altrui. Quante volte chi sbaglia lo riconosce scusandosi sui social? Quante volte invece si accusa il T9… o si cancella di corsa il post? Quante volte sui social – come in televisione – qualcuno dice: “non lo so” o “ non è il mio campo, devo approfondire”. Questa roba non è mediaticamente funzionale ed è letale per il performing self narcisista. E tutto questo aiuta a incattivire… Quanto al protagonismo politico, non mi sorprende. Essere narcisi non vuol dire per forza essere vanitosi e ambiziosi. Vuol dire essere in crisi di identità, cercare negli altri le conferme sulla propria “funzione nel mondo”. Se io insulto il mio avversario politico e questo mi fa ottenere centinaia di like, mi può bastare. Gli specchi mi stanno dando ragione e mi dicono che esisto e che sono nel giusto. Fare politica presenta oggi più rischi che opportunità, fare il tifoso è più gratificante e garantisce una carriera a vita…

 

Il dualismo tra popolo ed elite sembra mettere in forte discussione anche il contributo dell’accademia soprattutto politologica nella spiegazione dei fenomeni. In pochi hanno previsto l’emergere dei cosiddetti populismi e spesso ne hanno dato un giudizio fortemente negativo. Che terapie per la demopatia? Che terapie per l’accademia?

Credo che le terapie per la demopatìa e per l’accademia siano fortemente intrecciate. Una delle cose a cui tengo di più del mio libro è il suo approccio multidisciplinare. Nella società più complessa e interdipendente di sempre non possiamo più provare a spiegare fenomeni macro senza ibridare le conoscenze, i metodi e le esperienze. L’iperspecialismo porta a spiegazioni necessariamente parziali e necessariamente micro. Magari metodologicamente impeccabili, ma sinceramente servono a poco. Dunque, l’accademia – mondiale, non solo italiana – deve fare lo sforzo di mettere in comune, di creare sinergie virtuose per provare a cercare spiegazioni valide e di conseguenza a fare previsioni verosimili. Ad esempio, oggi più che mai mi pare abbastanza inutile studiare la politica senza tenere in considerazione la psicologia cognitiva, il (neuro)marketing, le scienze della narrazione, la massmediologia, la sociologia e la psicologia dei consumi… 

Demopatìa è un primo tentativo in tal senso. La strada è lunga, complessa, magari tortuosa, ma è chiaro – per me – che non può che essere quella. La strada maestra che porti a una maggiore consapevolezza di ciò che siamo sempre stati e di ciò che siamo diventati negli ultimi anni. Solo da quella consapevolezza può nascere una terapia anche per la demopatìa. Nel breve, invece, occorre evitare che le tendenze recenti portino verso le “democrazie illiberali” come alcuni le definiscono. Ossia, evitare che le nuove leadership/followship a furia di inseguire l’opinione della massa e grazie al consenso della maggioranza pro tempore arrivino a distruggere la credibilità e l’immagine di tutte le istituzioni non elettive e di tutti i contro-poteri democratici.

C’è una chiara tendenza verso la “forza del numero” e contro la “forza delle regole” che può minare lo stato di diritto e il versante liberale delle democrazie. Ma se crolla il versante liberale, crolla la democrazia, perché viene meno la tutela del dissenso e si apre la strada alla tirannia della maggioranza. “Nulla rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia” diceva Bobbio. Ecco, nel breve, l’obiettivo deve essere quello. Ma non serve farlo rimpiangendo il passato – che magari non era così aureo come lo ricordiamo – o chiedendo al popolo, alla politica e ai media di essere qualcosa di diverso.

Siamo, tutti, ciò che siamo. Quello è il punto di partenza. E se questo comporta populismi, fake news, post-verità, ecc. dobbiamo farci i conti. E provare a reagire con le stesse armi, perché sono le uniche che funzionano. Una bugia credibile è più creduta di una verità? Allora bisogna lavorare per rendere più vendibile la verità. Manipolarla per venderla. Immigrazione e sicurezza continuano ad allarmare anche quando gli sbarchi diminuiscono e i delitti calano? Allora bisogna rendere vendibili le vere priorità del paese. Metterle in agenda, seguendo la media logic. È difficile, forse impossibile, ma è l’unica strada che vedo. Le altre sono utopistiche e anti-storiche. Destinate al fallimento prima ancora di provarci.