Le reazioni "nazi-animaliste" al video di Caterina Simonsen danno una rappresentazione distorta sia delle posizioni della studentessa padovana (tutt'altro che incline al fanatismo vivisezionista) sia della sensibilità prevalente in larga parte dell'opinione pubblica e della stessa comunità scientifica, che non ragiona più del rapporto tra vita umana e vita animale come di quello tra un fine assoluto e un mezzo assoluto, ma riconosce al contrario la natura morale, e dunque problematica, della loro relazione.

caterina simonsenGli animalisti ingenui e paradossalmente antropocentristi, che umanizzano le bestie e favoleggiano di una comune etica antispecista, hanno, a dire il vero, ben pochi meriti nella rapida trasformazione dell'etica scientifica su questo problema sempre meno di confine. La questione della sofferenza animale è diventata culturalmente rilevante perché ne è stata riconosciuta la natura specifica e in sé significativa, non perché si sia dichiarata guerra al "rapporto di sfruttamento" tra uomini e animali. Non è insomma l'animalismo inteso come una sorta di "lotta di classe" naturale ad avere conquistato diritti anche per gli animali non umani, negli allevamenti e nei laboratori.

Però anche su questo, come su altri temi che riguardano la cosiddetta "etica della vita", i compromessi sono provvisori e ovviamente riflettono, ma non esauriscono, il pluralismo delle società contemporanee, né incontrano in un ideale giusto mezzo una soluzione moralmente soddisfacente per tutti. A valle delle leggi, che suggellano questi compromessi, continua a scorrere una vita che è fatta di tante scelte libere e diverse, incompatibili, ma ugualmente legittime. Il "sistema" smette di funzionare quando le leggi, anziché starsene, per così dire, a monte, se ne scendono a valle a incarnare le pretese dello Stato etico e a provare a rimettere ordine nel "casino" pratico e morale di fedi e opinioni diverse e delle imprevedibili possibilità, che l'evoluzione della scienza consegna ad un'umanità, ça va sans dire, ingolosita, impreparata e inconsapevole dei rischi cui va incontro (c'è sempre una presunzione clericale in questa affermazione di superiorità dello Stato sull'intelligenza morale degli individui).

Non sarebbe più saggio ammettere che, nel caso di questa, come di altre sperimentazioni (pensiamo a quelle sugli embrioni umani, in Italia semplicemente abolite da una logica proibizionista analoga a quella che anima i persecutori di Caterina), fissate alcune regole generali di tutela, sulla base di un consenso "minimo" e effettivamente comune, tocchino poi ai ricercatori e ai pazienti le scelte "massime" e spetti loro la responsabilità di decidere cosa accettare e cosa no delle possibilità che la scienza offre? Stare con Caterina, più che stare con le cure che sceglierà, non significa forse stare con il suo diritto di sceglierle? E non significa anche stare con il diritto di chi, nei suoi panni, preferirebbe non salvarsi così?