Alfie Evans, l'autodeterminazione è una strada a due vie
Scienza e razionalità
Lady Hale, Lord Kerr, Lord Wilson: sono questi i tre giudici della Corte Suprema del Regno Unito che hanno rigettato, il 20 aprile scorso, l’ultima richiesta dei genitori di Alfie Evans di non staccare il respiratore che tiene in vita il bambino (e che, mentre scriviamo, ha ripreso a respirare autonomamente ed è assistito con cure terminali) o, almeno, di permettere il trasporto del piccolo fino a Roma, dove i medici del Policlinico Gemelli sono disponibili a tenerlo attaccato alle macchine fino alla morte naturale, che potrebbe avvenire anche tra molti mesi.
Colpisce, della sentenza, la chiarezza di linguaggio: niente formule da azzeccagarbugli, ma «plain English» comprensibile anche per i genitori della sfortunata creatura. «Questo è un caso estremamente triste» scrivono alla prima riga: triste per i genitori che amano il figlio, ma triste anche per i medici che lo hanno tenuto in vita in questi mesi, mentre la malattia neurodegenerativa di natura ancora non chiara minava senza rimedio in suo cervello. «Ma noi dobbiamo attenerci ai fatti» ribadiscono i giudici.
E i fatti sono che Alfie Evans è non è più in grado di sopravvivere se non attaccato a macchinari che comunque non hanno alcun effetto sulla sua malattia, né possono consentirgli di guarire. Ed è un fatto, accertato da diverse commissioni mediche, che il suo cervello è irrimediabilmente e irreversibilmente danneggiato, tanto che il piccolo è in stato semi-vegetativo. I giudici stabiliscono quindi con la sentenza che non è nel «miglior interesse» del bambino essere manteneuto in vita, e rigettano la richiesta di trasferimento all’estero.
La seconda istanza dei genitori si appella all’habeas corpus, un caposaldo della storia della giurisprudenza, una delle norme che proprio il Regno Unito ha regalato ai sistemi legali moderni e che vieta di restringere la libertà di movimento di un individuo in modo illegale. I giudici ribadiscono che il diritto di habeas corpus del minore non è nelle mani del padre almeno dal 1891, quando il Custody Children Act ha decretato che un tribunale può privare i genitori della «proprietà del corpo» dei propri figli se essi non agiscono nell’interesse dei bambini. Infine i giudici sentenziano che Alfie Evans non è privato della libertà a causa delle sentenze del tribunale, ma lo è in virtù della sua malattia, che lo costringe in un letto d’ospedale, attaccato alle macchine. Alla luce di questi elementi, la Corte Suprema decreta che non vi sono gli estremi per concedere ai genitori la «proprietà del corpo» del figlio e per autorizzare un trasferimento al domicilio o un cambiamento nelle modalità di cura.
Fin qui la legge. Ma il caso di Alfie, come quello di Charlie Gard, pochi mesi fa, devono far riflettere in primo luogo coloro che, come chi scrive, sono sostenitori convinti dell’autodeterminazione dell’individuo nelle scelte di fine vita. La strada percorsa dal Regno Unito è infatti logica, scientificamente corretta e nondimento eticamente sbagliata: dopo il caso Evans possiamo dirlo con una convinzione che ancora mancava nel caso Gard. Un singolo caso, infatti, può essere un’eccezione. Due casi in pochi mesi configurano una prassi e ci dicono che qualcosa non funziona e che la strada scelta non è fruttuosa né per il singolo né per la collettività.
Fermo restando che l’accanimento terapeutico è un reato in Gran Bretagna, e che non sempre i genitori sono i migliori giudici della sofferenza di un figlio, risulta difficile, per chi conosce la medicina moderna, affermare che non è possibile, con opportune cure, garantire la sopravvivenza di un paziente in stato vegetativo in assenza di sofferenze fisiche: nel 2015, una mappatura eseguita dal Ministero della Salute contava circa 3000 casi di pazienti in stato vegetativo, di cui circa 1000 tenuti in vita da un respiratore. Non a caso, contrariamente a quanto accaduto per Charlie Gard, in cui i medici italiani hanno contribuito allo sciacallaggio generale proponendo una fantomatica cura sperimentale ancora di là da venire, in questo caso si sono limitati a offrire un sostegno palliativo che il bambino potrebbe tranquillamente ottenere anche nel suo Paese di origine.
Il Sistema Sanitario britannico, che negli anni ’80 è stato un faro per tutti coloro che premevano per una medicina più scientifica in cui gli interventi fossero giustificati da un corretto rapporto tra costi e benefici per il singolo e per la comunità tutta, negli ultimi anni ha portato questo approccio alle estreme conseguenze, complice anche la mancanza sempre più acuta di fondi per mantenere l’assistenza universale ai livelli del passato. Alcune scelte sono state molto criticate sul piano bioetico: dalla compilazione delle liste per i trapianti che tengono conto dell’aspettativa di vita in relazione all’età ma anche alle abitudini del malato, alla scelta di limitare alcune terapie oncologiche a gruppi molto ristretti di pazienti, fino a scelte organizzative più banali, come l’aver delegato a figure paramediche la sorveglianza delle gravidanze fisiologiche, riducendo all’osso i controlli ecografici e strumentali, con un conseguente aumento delle complicanze e mortalità intorno al parto che ha portato a una parziale marcia indietro.
Le norme del National Health Service che riguardano il mantenimento in vita dei pazienti in stato vegetativo rientrano in questo contesto: prevedeono il sostegno vitale solo finché c’è una speranza di guarigione o di miglioramento (la norma prevede che dopo 12 mesi in stato vegetativo i medici si rivolgano a un tribunale per ottenere l’interruzione del supporto vitale, compresa l’alimentazione). Una norma scientificamente ineccepibile, ma che richiederebbe un sistema flessibile e pronto ad accogliere le diverse sensibilità dei singoli e dei familiari. Nessun sistema di questo tipo può reggere all’urto della diversità valoriale, perché nulla è più personale delle scelte di fine vita. Chi sostiene l’autodeterminazione dei singoli, chi si batte perché sia lecito richiedere l’interruzione delle cure e persino l’eutanasia attiva, deve essere consapevole del fatto che l’autodeterminazione è una strada a due vie: non a caso la legge italiana sul biotestamento prevede che si possa richiedere di essere mantenuti in vita, non soltanto che si possa indicare quando e come ottenere una interruzione del trattamento.
L’autodeterminazione ha un costo, sociale ed economico, che bisogna essere pronti a pagare. Se vogliamo avere centri attrezzati che accompagnino i malati a una morte serena e consapevole senza necessariamente dover emigrare, dobbiamo essere disposti anche a mantenere economicamente centri che assistano coloro che credono nel valore della vita fino alla sua più estrema espressione. I casi di Alfie Evans e Charlie Gard fanno un gran male alle battaglie per il fine vita, e chi le sostiene non dovrebbe lasciare nelle mani della Chiesa, del Papa, dell’ospedale del Vaticano - o di gruppi di pressione cattolici come quelli che in UK stanno assistendo i giovani genitori - la discussione su quanto sta accadendo. È necessario essere chiari e ribadire che una politica pro-choice non è una politica pro-morte, ma presuppone la libertà di scelta per sé e, nel caso di minori, per i propri figli.
C’è qualcosa che non va, laggiù nelle terre di Albione, se il sistema sanitario non è capace di accompagnare i genitori nel lutto, se non è capace di spiegare in che termini la sopravvivenza del loro bambino è una sofferenza e in che modo tali sofferenze potrebbero essere alleviate senza necessariamente arrivare al distacco dei macchinari. C’è un problema etico grave se la norma è talmente rigida da non riuscire a incorporare un diverso sistema valoriale. Una legge che impedisce a una persona di scegliere di morire in dignità è una legge liberticida, ma lo è anche una legge che non rispetta i tempi dell’individuo o dei famigliari, come ha dichiarato, con grande coraggio e con conoscenza di causa Beppino Englaro commentando su La Repubblica il caso Evans.
Non abbiamo bisogno di paladini della vita, di ministri che concedono cittadinanze italiane per mania di protagonismo (difficile pensare che i nostri governanti non sappiano che una seconda cittadinanza non cancella la prima e che Alfie Evans rimane comunque sottoposto alla giurisdizione britannica). Abbiamo bisogno di una discussione aperta e chiara sul senso della libera scelta nel fine vita. Abbiamo bisogno di dire che la libertà ha sempre un costo, ma che sono soldi che vale la pena di spendere, in una direzione o nell’altra, se si vuole essere un Paese civile.