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Dal caso di Alfie Evans è possibile trarre due morali “laterali”, che non rispecchiano direttamente il dilemma bioetico legato alla sospensione delle terapie, decisa dai medici e confermata dai giudici, o alla loro prosecuzione, impetrata dal Pontefice e ufficialmente sostenuta dallo Stato italiano, che ha riconosciuto la cittadinanza del piccolo britannico, per favorirne – senza riuscirci – il trasferimento all’Ospedale Bambino Gesù.

La prima morale riguarda la sempre più evidente incommensurabilità tra la natura del discorso pubblico su questi casi e la portata dei problemi che questi casi sollevano. Il primo, per ragioni che potremmo quasi definire “tecniche”, tende a essere immediato e semplificato, istintivamente partigiano e per definizione schierato lungo la linea di confine stabilita dai media di massa. La complessa tassonomia morale dei casi è dissolta e ricomposta algoritmicamente in forma elementare. Alfie è come Charlie. Da una parte la vita e dall’altra la morte. Il “dibattito” così produce alienazione, non comprensione, appartenenza, non conoscenza. È una dinamica che rumina e risputa sfigurati non solo i problemi bioetici, ma tutti i problemi complessi.

Dietro tutto questo non c’è una regia, ma c’è un paradigma che è innanzitutto tecnologico. Se le foto del piccolo Alfie, che sono un prodotto mediatico, non avessero potuto diffondersi epidemicamente e a costo zero, non avrebbero potuto soppiantare nella coscienza comune la vera vita del piccolo Alfie, né avrebbero consentito di vagheggiarne una salvezza così immaginaria, così disincarnata, così miracolosa. Questa dinamica è destinata ad aggravarsi perché la potenza del sapere, che è una potenza complessa, apre a valle questioni complesse. E questo in prospettiva comporta che l’aumento della complessità nel dibattito scientifico non incentivi l’emancipazione razionale, ma la deriva irrazionale del “pubblico”.

Non è solo il “partito della vita” a essere vittima di questi semplificazioni coatte, di questo appiattimento bidimensionale della multidimensionalità delle problematiche bioetiche. Lo è, per essere chiari, anche quello “pro choice”, quando classifica all’ingrosso tutto, facendo coincidere eutanasia e suicidio assistito o la maternità surrogata con la frontiera moralmente neutrale delle pratiche di fecondazione assistita.

La seconda morale è ancora più inquietante. Il caso di Alfie Evans dimostra che una fiducia ingenua nell’onnipotenza delle “macchine” resuscita un’idea arcaica della medicina come esorcismo contro la morte e non come rimedio contro la malattia e la sofferenza umana. Un paradosso solo apparente per un “partito della vita” storicamente impegnato contro la dittatura morale della scienza e oggi invece schierato a favore di qualunque pratica di surrogazione tecnica dei processi vitali e esposto ai rischi sinistramente dispotici di una medicina post-terapeutica.

C’è, sul fine vita, un rischio gigantesco, assolutamente analogo a quello che incombe sulla fecondazione medicalmente assistita, quello della “de-antropologizzazione” della vita umana, del nascere come del morire. Eppure a chi prova orrore per la maternità surrogata, che dissocia programmaticamente i legami biologici e quelli morali, la gravidanza e la maternità, trova moralmente doverosa una vita interamente surrogata e “sacra” la mera continuità biologica dei corpi.

Il facilismo mediatico e l’oltranzismo bioetico, insomma, concimano il campo della post-verità, dove tutti gli Alfie del mondo diventano icone e cessano di essere umani.

@carmelopalma