Mentre le residue barriere al libero commercio stanno per cadere, altrettanto non si può dire di quelle imposte al libero movimento delle persone. Tuttavia, una maggiore libertà nello spostamento della forza lavoro influirebbe sulla ricchezza mondiale in maniera più positiva di qualsiasi ulteriore trattato di scambio.

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Perché se la Fiat decide di assemblare la nuova Tipo in Turchia, caricarla su di una nave, spedirla per mare e poi venderla in tutta Europa non incontra restrizioni di sorta, ma se un cittadino turco decide di imbarcarsi sulla medesima nave e di cercare un lavoro nel vecchio continente, a meno di circostanze eccezionali, viene respinto? Sebbene si tenda a considerare l’assetto corrente, in cui merci e capitali godono di ampia libertà di circolazione e le persone no, come un naturale stato di cose, non è scontato che esso sia desiderabile o giustificabile.

Che differenza c’è tra produrre la Tipo a Melfi con una forza lavoro composta interamente da manodopera turca e produrla direttamente in Turchia? Concettualmente, nessuna. Anzi, nel primo caso si potrebbe argomentare che quei lavoratori spenderebbero almeno parte del proprio salario in Italia, nel secondo no.

Il punto dirimente è che entrambe le situazioni si possono facilmente ridurre a un nucleo costitutivo piuttosto semplice: individui che liberamente prendono decisioni, consumatori che optano per un certo tipo di acquisto, un’automobile Fiat che arriva dall’Asia Minore, imprenditori che scelgono di impiegare forza lavoro straniera, gli immigrati turchi. Quali che ne siano le ragioni, migliore qualità o minor prezzo, esse dovrebbero rimanere prima facie insindacabili. Concorrenza, abbassamento dei mark-up, migliore allocazione delle risorse nel tempo e, quindi, maggiore efficienza.

Eppure, se la battaglia per il libero commercio, al netto di alcune intemperanze residue, è stata ormai in gran parte vinta, altrettanto non si può dire per quella in favore di una più libera immigrazione, visto che anche la pubblicistica - si pensi alla recente, ampia diffusione, soprattutto nel mondo anglosassone, di testi come A Splendid Exchange: How Trade Shaped the World, di William J. Bernstein o il pluricitato The Box: How the Shipping Container Made the World Smaller and the World Economy Bigger, di Marc Levinson - tende spesso a celebrare le grandi trasformazioni indotte dallo scambio di merci, mentre i racconti di migrazioni sembrano interessare il pubblico più vasto soltanto quando assumono una vena individuale, quasi intimistica, cioè molto meno attenta alle implicazioni storico-sistemiche del fenomeno.

Per quanto gli elementi teorici ed empirici siano piuttosto cogenti nell’indicarne i benefici, il ragionamento economico da solo non è sufficiente per persuadere i più della bontà dell’approdo a un regime di frontiere maggiormente aperte. Paure cristallizzatesi in formule semplici, questioni identitarie non di rado estremizzate e tradizioni di dubbia autenticità storica sembrano avere la meglio.

Questo, tuttavia, non esime dal continuare a proporre letture più complesse e articolate, per quanto la strada della loro affermazione appaia impervia. Tanto più se ci soffermiamo a considerare gli sviluppi demografici che plasmeranno i decenni a venire: le società occidentali, ma anche alcune economie in via di sviluppo, stanno già sperimentando un rapido invecchiamento e l’aumento dei dependency ratio, mentre la popolazione in età lavorativa continuerà a crescere nella maggior parte dei paesi a più basso reddito.

All’interno dell’Italia - e dell’Europa - si intensificheranno gli squilibri demografici dovuti ai differenziali di crescita, si pensi alla proiezione dello Svimez, secondo cui “Il Sud Italia sarà interessato nei prossimi anni da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27% sul totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3%”.

Inevitabilmente, migrazioni internazionali e mobilità interna (in particolare intra-europea) busseranno alla porta con forza.

Anche per questa ragione, sorprende che nel dibattito sulla diseguaglianza alimentato dall’opera di Thomas Piketty così poca attenzione venga dedicata alle disparità tra regioni ricche e regioni povere, a favore di un’analisi che resta pressoché tutta incentrata sugli aggregati domestici. Perché, se è vero che una politica di frontiere aperte potrebbe espandere in modo cospicuo la torta del PIL mondiale, un aspetto troppo spesso trascurato è l’impatto che essa avrebbe sulla sua distribuzione.

Circa il primo punto, Michael Clemens, nonché Ian Goldin, Geoffrey Cameron e Meera Balarajan, tra gli altri, hanno mostrato con dovizia di dati e argomentazioni che i vantaggi derivanti dall’allentamento delle restrizioni al movimento delle persone, dal consentire loro di spostarsi dove il lavoro è più produttivo, potrebbero generare benefici molto più cospicui rispetto alla rimozione delle restanti barriere al movimento delle merci e dei capitali, con guadagni dell'ordine di svariati trilioni di dollari in termini di prodotto mondiale, cosa non da poco in un periodo in cui si lamenta di continuo la crescita anemica e si dibattono ipotesi di stagnazione secolare.

Il ragionamento, in fondo, è intuitivo: si tratta di muovere risorse da luoghi in cui il loro lavoro va sostanzialmente sprecato - l’attività di “coltivare il ghiaccio in Antartide” secondo l’icastica espressione di Bryan Caplan - a luoghi in cui possono fornire un contributo incommensurabile; poiché la differenza di produttività del lavoro tra le regioni più povere e quelle più ricche tende ad essere di enorme portata, spostarsi, facciamo il caso, da Haiti agli Stati Uniti comporta in media un aumento del salario del 2000%. E i vantaggi si manifestano non solo per i paesi di approdo, ma anche per quelli di provenienza.

Il caso di Porto Rico è in tal senso illuminante: uno Stato povero dei Caraibi, per ogni verso non dissimile da quelli circostanti, ma i cui abitanti, skilled e unskilled, a differenza di tutti gli altri, dal 1904 hanno avuto libero accesso agli Stati Uniti. Nonostante l’emigrazione nel tempo sia stata copiosa, l’isola ha raggiunto livelli di reddito pro capite che ne fanno uno straordinario unicum nella regione geografica di appartenenza. Israele e Taiwan sono altre due brillanti realtà difficilmente concepibili come oggi le conosciamo senza la forza trainante della diaspora, in termini di trasferimento di know-how, finanziamenti, networking politico.

Riguardo al secondo aspetto, l’osservazione essenziale è che il grosso della diseguaglianza oggi nel mondo si origina non dalle differenze interne ai singoli paesi, ma da quelle tra paesi, e dipende sostanzialmente dalla fortuna di essere nati a una certa latitudine invece che a un’altra.

Se le varie proposte di “global wealth tax” presumibilmente indebolirebbero gli incentivi, ridurrebbero il Pil e, soprattutto, richiederebbero la presenza di uno Stato oltremodo invasivo, l’apertura almeno parziale delle frontiere avrebbe insieme vantaggi di equità e di efficienza: quando si muove, la maggior parte dei migranti riesce a migliorare il proprio reddito, l'accesso all'istruzione, alla sicurezza personale e, come abbiamo visto, a contribuire anche al benessere del luogo di origine. Si potrebbe obiettare che il ricorso al foreign aid costituisca un’alternativa meno radicale. Tuttavia, sempre più tendono ad emergerne i limiti: in termini di corruzione e cattiva allocazione delle risorse da una parte, e di grandezze monetarie disponibili dall’altra, per cui, come ha notato Glen Weyl, “at the current scale of transfer, aid is having practically no impact on inequality across countries”.

Esistono, poi, altre circostanze che hanno a che fare con la mobilità delle persone e di cui solitamente vengono sottolineati gli elementi deteriori e omessi quelli più fecondi: l’emigrazione, infatti, può esercitare forte pressione su quelle realtà socio-politiche particolarmente ingessate e refrattarie al cambiamento. Il nostro Mezzogiorno e la Grecia hanno problemi per molti versi simili, ad esempio: rapporti di forza consolidati nella società, soffocanti ragnatele di incentivi incompatibili con un’efficiente allocazione delle risorse, ragioni “di equilibrio” che non è chiaro come e se possano essere modificate dall’interno, attraverso il normale processo democratico.

Eppure, verificata l’impossibilità di un cambiamento, non solo è razionale “votare con i piedi” ma, e questo è il punto che spesso si perde nel discorso pubblico, la decisione di spostarsi altrove fisicamente, lungi dal danneggiare un territorio, nel medio/lungo periodo potrebbe ben rivelarsi un modo per salvarlo, in quanto essa introduce preziosi elementi di concorrenza, la possibilità di optare per alternative ritenute migliori, non diversamente dal cambiare un fornitore di cui non si è contenti, in un contesto altrimenti monopolistico e quindi per natura nemico della trasformazione, fino a costringere alla scelta che ogni azienda che cominci a perdere clienti prima o dopo si trova a dover fare: cambiare o soccombere.

Sostenere che chi parte in qualche modo volterebbe le spalle alla sua terra ed esaltare le sole virtù di chi resta, in altre parole, rischia di perdere il significato di importanti canali di innovazione sociale e politica (ciò vale anche a livello europeo, dove purtroppo non sono in pochi a stigmatizzare i processi concorrenziali tra paesi, in primis quelli di natura fiscale).

Che, poi, in concreto, gli effetti responsabilizzanti per le classi dirigenti locali di tali dinamiche vengano vanificati da continui bail-out attraverso i trasferimenti dal governo centrale, è soltanto una testimonianza della natura monca e incompiuta che non di rado caratterizza il decentramento amministrativo.

In ultima analisi, demografia, guerre, rivolgimenti geopolitici, cambiamenti climatici, diffuso malgoverno suggeriscono che le pressioni migratorie non soltanto proseguiranno, ma potrebbero facilmente intensificarsi. Riflettere spassionatamente su questi fenomeni e squarciare il velo della prevalente cacofonia che ci circonda diverrà sempre più ineludibile.