Pubblichiamo il testo della prima parte della relazione annuale illustrata dal presidente dell’Inps Tito Boeri alla Camera dei Deputati. Parole molto significative e coraggiose, soprattutto in questa particolare fase politica e pronunciate di fronte a questa maggioranza parlamentare. Parole secondo noi meritevoli di lettura e riflessione. Qui i link al testo completo della relazione e al XVII rapporto annuale dell'Inps. 

tito boeri

 

Inconsapevolezza demografica

Siamo all’inizio di una nuova legislatura con un nuovo Parlamento e un nuovo Esecutivo che hanno da poco iniziato ad operare. Nell’augurare a entrambi buon lavoro, non possiamo che reiterare con forza il nostro invito a pensare al futuro.

Nel confronto pubblico degli ultimi mesi si è parlato tanto di immigrazione e mai dell’emigrazione dei giovani, del vero e proprio youth drain cui siamo soggetti. Nessuno sembra preoccuparsi del declino demografico del nostro Paese.

Gli italiani sottostimano la quota di popolazione sopra i 65 anni e sovrastimano quella di immigrati e di persone con meno di 14 anni. Questo avviene anche in altri Paesi, ma la deviazione fra percezione e realtà è molto più accentuata da noi che altrove. Non sono solo pregiudizi. Si tratta di vera e propria disinformazione. Diversi esperimenti dimostrano come sia possibile migliorare in modo sostanziale la cosiddetta demographic literacy degli italiani. Basta dire loro la verità.

Purtroppo è anche possibile peggiorare la consapevolezza demografica, ad esempio agitando continuamente lo spettro delle invasioni via mare quando gli sbarchi sono in via di diminuzione. La classe dirigente del nostro Paese dovrebbe essere impegnata in prima fila nel promuovere consapevolezza demografica. Chi si trova a governare con una popolazione così disinformata fa molta fatica a far accettare all’opinione pubblica le scelte difficili che la demografia ci impone. Bene ricordare alcune delle implicazioni dell’andamento demografico sulle scelte di politica economica che ci stanno di fronte.

Ripristinare le pensioni d’anzianità significa ridurre il reddito netto dei lavoratori.

In un sistema pensionistico a ripartizione come il nostro, i contributi di chi lavora servono ogni anno a pagare le pensioni di chi si è ritirato dalla vita attiva. Oggi abbiamo circa 2 pensionati per ogni 3 lavoratori. Questo rapporto è destinato a salire nei prossimi anni. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale a legislazione invariata, a partire dal 2045 avremo addirittura un solo lavoratore per pensionato. Oggi un reddito pensionistico vale l’83% del salario medio. In queste condizioni, con un solo lavoratore per pensionato, quattro euro su cinque guadagnati col proprio lavoro andrebbero a pagare la pensione a chi si è ritirato dalla vita attiva.

Il passaggio al sistema contributivo, con regole pensionistiche meno generose, serve proprio ad evitare che questo avvenga. Ma se dovessimo oggi abbassare l’età di pensionamento con prestazioni che hanno ancora una forte componente retributiva, condanneremmo i lavoratori a destinare fino a due terzi del proprio salario al pagamento delle pensioni. Ad esempio, ripristinando le pensioni di anzianità con quota 100 (o 41 anni di contributi) si avrebbero subito circa 750.000 pensionati in più.

Sappiamo che ogni abbassamento dell’età pensionabile comporta anche riduzione dell’occupazione perché il prelievo contributivo aumenta e il lavoro costa di più. Come documentato dall’esperienza degli ultimi anni discussa nel primo capitolo del nostro Rapporto,l’occupazione è molto sensibile a variazioni del cuneo fiscale e contributivo. Avremmo dunque non solo più pensionati, ma anche meno lavoratori, ciascuno dei quali con un fardello ben più pesante sulle proprie spalle.

Tutti d’accordo sul fatto che bisogna contrastare l’immigrazione irregolare. Bene, ma si dimentica un fatto importante: per ridurre l’immigrazione clandestina il nostro Paese ha bisogno di aumentare quella regolare. Tanti i lavori per i quali non si trovano lavoratori alle condizioni che le famiglie possono permettersi nell’assistenza alle persone non-autosufficienti, tanti i lavori che gli italiani non vogliono più svolgere. Nel lavoro manuale non qualificato sono oggi impiegati il 36% dei lavoratori stranieri in Italia, contro solo l’8% dei lavoratori italiani e lo Skill Outlook dell’OCSE segnala una forte polarizzazione nella domanda di lavoro, con richieste di personale sia altamente qualificato che addetto a mansioni ai livelli più bassi della scala retributiva.

Dunque c’è una forte domanda di lavoro immigrato in Italia. In presenza di decreti flussi del tutto irrealistici, questa domanda si riversa sull’immigrazione irregolare degli overstayer, di chi arriva in aereo o in macchina, non coi barconi ma coi visti turistici, e rimane in Italia a visto scaduto. Pensiamo al caso dei lavoratori domestici. La domanda di colf e badanti delle famiglie italiane è in costante aumento alla luce anche dell’incremento tendenziale del numero di persone non-autosufficienti. Tuttavia, in mancanza di decreti flussi con quote di colf e badanti (l’ultimo è stato nel 2011), il numero di lavoratori domestici extra-comunitari iscritti alla gestione Inps tende inesorabilmente a ridursi, non compensato (o compensato in minima parte) dall’aumento dei lavoratori comunitari o italiani che non hanno problemi coi visti. Ma non appena c’è un provvedimento di regolarizzazione del lavoro nero (come nel 2008-9 o nel 2012), il numero di colf e badanti extracomunitarie si impenna, a dimostrazione del fatto che questi lavori continuano a essere richiesti, ma vengono svolti senza versare i contributi sociali.

Anche la storia di Paesi a immigrazione non recente come la nostra ci insegna che quando si pongono forti restrizioni all’immigrazione regolare, aumenta l’immigrazione clandestina o viceversa: in genere, a fronte di una riduzione del 105 dell’immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5%. Negli Stati Uniti il boom degli illegali è cominciato nel ’64 quando è stato chiuso il Bracero Program, ed il numero di immigrati trovati irregolarmente sul territorio è calato da quando ha cominciato a essere pienamente messo in atto l’Immigration Reform and Control Act, che ha regolarizzato milioni di lavoratori messicani.

 

Un problema dell’oggi

Il declino demografico è un problema molto più vicino nel tempo di quanto si ritenga. Ai ritmi attuali, nell’arco di una sola legislatura, la popolazione italiana, secondo scenari relativamente pessimistici, ma non inverosimili, potrebbe ridursi di circa 300.000 unità. E’ come se sparisse una città come Catania. Dimezzando i flussi migratori in cinque anni perderemmo, in aggiunta, una popolazione equivalente a quella odierna di Torino, appesantendo ancora di più il rapporto fra popolazione in età pensionabile e dopolazione in età lavorativa. Azzerando l’immigrazione, secondo le stime di Eurostat, perderemmo 700.000 persone con meno di 34 anni nell’arco di una legislatura.

Opportuno ricordare che il nostro sistema pensionistico è in grado di reggere alla sfida della longevità, almeno sin quando si manterrà l’adeguamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita e la revisione dei coefficienti di trasformazione. Ma non ha al suo interno meccanismi correttivi che gli permettano di compensare un calo delle coorti in ingresso nel nostro mercato del lavoro.

Certo, possiamo mitigare gli effetti della riduzione del rapporto fra attivi e pensionati aumentando la produttività del lavoro. Ma questo richiede profonde innovazioni tecnologiche ed organizzative e un Paese che perde più di 100.000 giovani all’anno è un Paese che perde spirito imprenditoriale, volontà di prendersi i rischi che ogni innovazione comporta. C’è una chiara relazione negativa fra età media della popolazione e tassi di imprenditorialità fra Paesi. Il declino demografico vuol dire, fin da subito, meno imprese.

Un Paese in declino demografico fatica anche ad attrarre investitori dall’estero. Con le revisioni al ribasso dei tassi di fertilità e di immigrazione da parte di Eurostat, peggiorano gli indicatori di sostenibilità del nostro sistema pensionistico (si vedano le nuove stime dell’Ageing Report della Commissione Europea), si trovano meno acquirenti dei nostri titoli di Stato e il costo del servizio del debito aumenta sottraendo risorse a impieghi socialmente rilevanti. Anche per questo la demografia conta nell’immediato, agisce sulle aspettative, i suoi effetti di lungo periodo vengono anticipati da comportamenti che fin da subito condizionano il benessere di milioni di persone.

Avere consapevolezza demografica non significa rinunciare a dare risposte a un Paese sfiancato dalla più lunga ed estenuante crisi del Dopoguerra. Non significa ignorare la domanda di protezione dei tre milioni di disoccupati e cinque milioni di poveri ereditati da questi anni difficili e non tenere conto del fatto che anche chi oggi un lavoro ce l’ha, con la crisi è diventato maggiormente avverso al rischio. Significa solo anticipare i problemi del futuro per migliorare il presente, adeguare il nostro sistema di protezione sociale assicurandoci che raggiunga chi ne ha davvero bisogno e che assicuri protezioni non solo temporanee a chi ha poche vie d’uscita.

Significa anche essere consapevoli del fatto che abbiamo pochissimi margini d’errore in questa delicata operazione.

Il vantaggio di avere 120 anni di storia alle spalle è che questa lunga vita è densa di lezioni utili per fare meglio il nostro mestiere di professionisti della protezione sociale. E’ con questo spirito che abbiamo deciso di aprire i nostri archivi storici ai ricercatori e di costruire banche dati sulle carriere salariali individuali a cavallo di tre secoli. Colmeranno un vuoto, l’assenza di dati sulla distribuzione del reddito, dunque sull’efficacia della protezione sociale, tra l’Unità d’Italia e gli anni ’80. Sono dati che ci ridanno memoria storica. Ad esempio non è vero che da noi i giovani sono stati sempre sacrificati. Mezzo secolo fa le persone dagli zero ai 17 anni avevano un rischio di povertà pari a un terzo di quello delle persone con più di 65 anni. Oggi hanno una probabilità di diventare poveri cinque volte più alta dei loro nonni e, come certificato nei giorni scorsi dall’Istat, la metà dei poveri ha meno di 34 anni.

La storia recente dei giovani del nostro Paese è una storia di inesorabili revisioni al ribasso delle loro aspettative. Fra queste delusioni anche quella di ritrovarsi sempre, quale che sia l’esito del voto, con governi che propongono interventi a favore dei pensionati.

Anche il nostro passato recente può permetterci di capitalizzare su errori e successi. Notiamo invece nel confronto pubblico sui temi del lavoro e della protezione sociale pericolosi vuoti di memoria e scarsa attitudine a raccogliere informazioni su quanto accaduto. Cìè molta nostalgia del passato come se questo fosse necessariamente migliore del presente. Si propone così di disfare più che di fare, di abrogare piuttosto che di migliorare o completare, senza analizzare in dettaglio ciò che di buono e di cattivo è stato fatto sin qui. E’ uno spreco di informazioni rilevanti e di capitale umano che davvero non ci possiamo permettere.