Tel Aviv – Israele andrà ad elezioni anticipate il prossimo 17 marzo. Il terzo governo di Benjamin "Bibi" Netanyahu è caduto a poco più di un anno dall'insediamento per volontà dello stesso Netanyahu, convinto della inevitabilità di una sua riconferma. Caduto sul pretesto della controversa legge sulla ebraicità che la Knesset si accingeva a discutere, ed il presunto "golpe" – smentito dagli interessati – orchestrato secondo Netanyahu dal ministro della giustizia Tzipi Livni (già stella nascente di Kadima ai tempi del rimpianto Ariel Sharon, e attualmente leader della piccola formazione HaTnuah), ed il ministro delle finanze, il laico liberale Yair Lapid (giornalista e figlio d'arte, che alle elezioni del 2013 aveva fatto il pieno di voti arrivando secondo dopo il Likud con la neonata formazione Yesh Atid che si era presentata su una piattaforma di riforme economiche liberali). Quella legge, nella formulazione proposta dallo stesso Netanyahu, non avrebbe in realtà fatto altro che ratificare l'asimmetria democratica che, nei fatti, vige in Israele tra cittadini ebrei e cittadini di confessioni diverse.

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La priorità degli israeliani, tuttavia, è l'economia – non la sicurezza, non la natura giuridica della ebraicità. Israele non vive la crisi economica che attanaglia i paesi europei, ma paga il prezzo dell'instabilità.

Il turismo segna un tracollo (stimato addirittura ad un meno 70%) - ed è così da mesi. L'agricoltura è fiorente ma sconta il boicottaggio ideologico dei paesi occidentali. L'ecosistema digitale continua ad affermarsi come volano all'esportazione di innovazione, anche in settori strategici come quello della difesa. Ma non basta. Le diseguaglianze sociali aumentano, il caro-vita è "la" questione nazionale. La spesa pubblica per la sicurezza, sebbene necessaria e condivisa dall'opinione pubblica, viene tuttavia a detrimento della spesa sociale. E la spesa per la sicurezza aumenta. L'ultimo atto della Knesset, prima dello scioglimento, è stato appunto il voto sull'aumento del budget per il settore militare.

L'instabilità della regione non favorisce la ripresa. La sicurezza dell'area non dipende naturalmente solo da Israele ma Netanyahu non si è mai spinto oltre il congelamento della tensione.

Raggiunta la tregua a Gaza, si è riaperto il fronte West Bank; interrotti i negoziati con l'Autorità palestinese, si è aperta la guerra diplomatica dichiarata da Abbas all'ultima Assemblea annuale delle Nazioni Unite. Lo stato palestinese non ha alcuna chance di nascere contro Israele. Ma contro Israele adesso c'è quasi unanime la comunità internazionale. Netanyahu ha portato i rapporti con gli Usa al limite dell'ostilità. Lo Stato palestinese – nonostante Netanyahu - è già nei fatti, seppure simbolici, dei parlamenti europei che ne hanno avallato il riconoscimento.

Nonostante Netanyahu non abbia mai avuto un piano per la questione palestinese; nonostante l'isolamento internazionale cui il Primo Ministro decaduto ha costretto Israele con la poco comprensibile ostinazione per la proliferazione degli insediamenti non-legali; nonostante il sostanziale boomerang della "vittoria" a Gaza contro Hamas, restituito alla facoltà di ri-armarsi e minacciare Israele con la stessa intollerabile arroganza di prima; nonostante tutto questo, una forza politica di governo alternativa a Bibi al momento non c'è. C'è invece un blocco trasversale basato sulla piattaforma chiunque tranne Netanyahu.

Le ipotesi al momento sono due: una coalizione con la ex falco Livni, il liberale Lapid e il partito laburista dell'assai poco carismatico Yitzhak "Buji" Herzog – che i primi sondaggi rilevano già vincente sul Likud; o un blocco di centro-destra composto da Livni, Avigdor Lieberman - leader del partito Israel Beytenu e Ministro degli Esteri di Netanyahu - e i fuorisciti del Likud. Ed è tra costoro, più che a sinistra, che potrebbe venir fuori il potenziale game-changer.

Si fa il nome di Gideon Sa'ar, ex ministro dell'interno e figura popolare del Likud, per ostacolare l'affermazione del quale Netanyahu starebbe appunto spingendo per anticipare le primarie del partito. Ma la sfida a Netanyahu viene anche da Moshe Kahlon, apprezzato ex ministro delle comunicazioni (si deve a lui la "rivoluzione dei cellulari", la liberalizzazione del mercato che, favorendo la concorrenza, ha permesso il crollo delle tariffe). Ritiratosi nel 2013 dalla scena politica, Kahlon parrebbe adesso non escludere un ritorno. Una eventuale alleanza tra Sa'ar e Kahlon avrebbe la meglio su Netanyahu, e riporterebbe in pista il Likud. 

I giochi sono ancora apertissimi, per tutti tranne che per Netanyahu. Lo sono per la longevissima Livni come per il più nuovo, ma non meno velleitario, Lapid. Lo sono persino per il laburista Herzog dato ancora pochi giorni fa a percentuali umilianti e che oggi invece viene quotato addirittura papabile per la premiership. Ipotesi virtuali, al momento. Di certo c'è solo la voglia degli israeliani di cambiare pagina. Oltre il 60% degli elettori si esprime contro un ritorno di Netanyahu al potere, ma sfiducia e disaffezione incombono. La prossima campagna elettorale potrà rinnovare la speranza o tramortirla del tutto, alimentare la partecipazione o annegare nella frustrazione. Il sospetto è che uno slogan accattivante possa non bastare. Che possa non bastare nemmeno l'evocazione dello spirito sionista. Serve la capacità di rinnovarlo, quello spirito, attualizzarlo, restituirlo alla vita della comunità. Alternativa, d'altronde, non c'è.

@kuliscioff