Non dico il cittadino comune, ma già solo il giornalista medio, sa forse chi sia il responsabile delle Finanze della Repubblica Slovacca, o del Marocco, o della Lituania? Sa forse chi sia il ministro della Sicurezza portoghese, o dell’Algeria, o della Danimarca? E ancora non dico il cittadino comune, ma già solo quel giornalista medio, si occupa con fervore delle riforme slovacche o marocchine o lituane in materia di giustizia? Segue con inesausta solerzia gli andamenti delle alleanze politiche portoghesi, algerine o danesi?
Pure, quel giornalista - spesso sapendone in realtà pochissimo, o nulla - si occupa in modo incessante del ministro delle Finanze e del ministro della Sicurezza di Israele. Si occupa senza sosta - spesso capendone pochissimo, o niente - “della svolta autoritaria in tema di giustizia” in Israele. Si occupa assiduamente - spesso avendone poca informazione, o nessuna - dei traffici delle maggioranze parlamentari e degli avvicendamenti di governo in Israele.

Come mai? Dice: beh, è un Paese in guerra, ovvio che se ne seguano le vicende. Ma, a parte il fatto che quel giornalista medio le seguiva anche prima che Israele fosse in guerra, una domanda: era in pace, in questi anni, il Sudan? E lo Yemen? E la Siria? Che faccio? Finisco lo spazio per elencare i Paesi non propriamente in pace senza che il giornalista, come invece fa con Israele, si dedichi al conto delle verruche dei loro ministri? Dice: ma Israele è una democrazia, ovvio che lo si segua con maggiore interesse!

Ma a parte il fatto che il giornalista medio che risponde in questo modo è - pressoché sempre, o comunque molto spesso - quello secondo cui Israele vanta il livello democratico del Terzo Reich, una domanda: e perché, a Copenaghen c’è la dittatura? Dice: ma il Medio Oriente è importante, ovvio che ce ne occupiamo! Eccerto: perché Algeri sta in Micronesia e Damasco in Manciuria.

Siccome mi scoccia che si capisca dove voglio andare a parare, dirò obliquamente e senza che nessuno possa accorgersene che alla base di quel giornalismo c’è un bel fondamento antisemita. Siccome non mi garba di essere esplicito, dirò ellitticamente e senza che nessuno riesca ad avvedersene che se è antisemita il cosiddetto doppio standard, allora è antisemita il giornalista onnisciente su Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich e spaesato sugli omologhi di mezzo mondo, anzi di tutto.

E sì (ma lo dico sottovoce, se no vedi mai): sì, quando senti che “criticare Israele non è antisemitismo”, puoi star sicuro che è l’antisemita provetto a dirlo. Provetto - attenzione - non vuol dire necessariamente consapevole, ma è antisemita punto e basta. Perché già solo dire così, “criticare Israele”, denuncia quel pregiudizio. Non si critica “il Portogallo”. Non si critica “la Siria”. Non si critica “la Lituania”. Si critica invece Israele, Israele in quanto tale, si indugia sulle malefatte ministeriali israeliane e si tiene l’occhio inquirente puntato sulle virgole della legislazione israeliana perché Israele è lo Stato degli ebrei. Solo e soltanto per questo.

Argomentare che “criticare Israele non è antisemitismo” è esattamente come “ho tanti amici ebrei”: è antisemitismo in purezza.
Comprendo, comprendo molto bene, che per i numerosissimi portatori di questo pregiudizio antisemita sia faticoso riconoscerlo come tale. Se non faticassero a riconoscerlo e a riconoscervisi, sarebbe meno diffusa, meno preoccupante e, soprattutto, meno lasciata correre l’infezione da cui si credono immuni.