La cicala europeista e la formica federalista
Istituzioni ed economia
“La cicala?! Ah! Mi ricordo di te! Cosa hai fatto durante l’estate,
mentre noi faticavamo per prepararci all’inverno?”
“Io? Cantavo e riempivo del mio canto cielo e terra!”
“Hai cantato?” replicò la formica, “Adesso balla!”
Dopo la lunga primavera del Next Generation EU, quando la crisi pandemica aveva finalmente posto le basi politiche per un vero bilancio europeo, e l'estate del sostegno rapido e convinto all'Ucraina aggredita, che poteva sfociare in una difesa comune, in Europa l'autunno sta ormai per finire e i segnali premonitori di un lungo, freddo e buio inverno si moltiplicano. Le opinioni pubbliche degli Stati membri hanno già dimenticato gli anni passati, in cui sembravano aver ritrovato lo spirito che le aveva fatte entusiasticamente aderire al progetto di integrazione, e le classi politiche nazionali si mostrano smarrite e preoccupate davanti alle difficoltà pre-elettorali e alle crisi che continuano a colpirle, mentre le forze nazionaliste ed euroscettiche guadagnano forza un po' ovunque. Come siamo tornati così rapidamente alla situazione problematica di cinque anni fa, nonostante i tanti passi avanti fatti durante questa legislatura? Serve un minimo di contesto per provare a rispondere a questa domanda.
I governi degli Stati membri dell'UE, che si riuniranno tra pochi giorni nel Consiglio Europeo per provare a prendere importanti decisioni sul futuro del continente, si sono finti sordi e ciechi per non ascoltare la (flebile) richiesta del Parlamento, che il 22 novembre ha approvato una risoluzione sulla proposta di riforma dei Trattati in vigore. Si tratta di un progetto di riforma esteso, complesso e dettagliato, il più avanzato dai tempi del Progetto Spinelli, votato nel febbraio 1984 e poi depotenziato dai governi l'anno successivo. Nonostante un'ampia maggioranza nella Commissione Affari Costituzionali del PE, quando è arrivato in aula il progetto ha incontrato una vivace resistenza non solo dalle frange sovraniste e conservatrici, ma anche all'interno del PPE e della Sinistra.
La risicata maggioranza con cui è stato votato ha permesso al Consiglio europeo di accantonare (almeno momentaneamente) il passaggio successivo previsto dalla procedura, cioè la scelta di convocare (a maggioranza semplice) una Convenzione per l'esame di quelle proposte: proposte che, se confermate in toto, renderebbero molto più vicina la creazione di una vera Unione politica, con lo spostamento verso le istituzioni sovranazionali di poteri che oggi sono ancora in mano agli Stati membri (come la politica estera e la difesa) ma che questi ultimi non riescono più a esercitare efficacemente. Sebbene il percorso di questo progetto non sia ancora del tutto sbarrato, sembra chiaro anche ai suoi più fervidi sostenitori che la via è diventata impervia, al limite dell'impossibile.
In molti Stati, non solo europei, ha ricominciato a soffiare il vento contrario allo spirito di Ventotene, che vedeva nella creazione di una federazione l'unica garanzia contro il risorgere dei nazionalismi e della guerra: quel vento è tornato dopo anni di apparente bonaccia, in cui molti politici e commentatori hanno preferito cantare le lodi dell'unità d'intenti europea piuttosto che lavorare duramente per consolidarla. È a queste sciocche e improvvide cicale che dovremmo chiedere conto di dove ci hanno portato le loro dichiarazioni di soddisfazione e di sostegno di un'architettura istituzionale disfunzionale come quella dell'UE attuale: il sole era alto, il clima gradevole, perché preoccuparsi del momento in cui sarebbe tornato il gelo?
Mentre le poche formiche federaliste cercavano di costruire un riparo per l'inverno in arrivo, prima attraverso la Conferenza sul Futuro dell'Europa e poi attraverso il lavoro a Strasburgo, i grandi leader hanno finto di poter continuare a decidere di non decidere, come se nel frattempo nulla fosse successo. Non Trump, non la Brexit, non la pandemia, non la guerra in Ucraina, non il rallentamento dell'economia, non i movimenti migratori, non la crisi climatica, non i colpi di Stato in Africa Occidentale, non le minacce di ostilità nei Balcani (oltretutto tra Paesi candidati all'ingresso). Nulla: si va avanti come se fossimo nel 2007, quando è stato firmato il Trattato di Lisbona, prima che la crisi dei mutui subprime si facesse sentire da questo lato dell'Atlantico, quando era Presidente del Consiglio Romano Prodi, in Francia e in Spagna c'erano Sarkozy e Zapatero, Angela Merkel era da un paio d'anni Cancelliera in Germania, Juncker era ancora Primo ministro del Lussemburgo e la residenza al numero 10 di Downing Street era appannaggio di Gordon Brown; politicamente stiamo parlando di un'epoca così lontana da apparire irreale.
Il lavorio silenzioso delle formiche è stato difficile, e il risultato poco efficace, anche perché svolto nel silenzio dei media europei e nel disinteresse delle pubbliche opinioni; d'altro canto i federalisti non potevano contare su leader politici all'altezza di un compito così difficile in un momento tanto grave per il continente. Mancano un De Gasperi o un Adenauer e, anche se ci fossero, nel Consiglio europeo a 27 conterebbero relativamente: come hanno dimostrato l'ondivago Emmanuel Macron, sempre incerto nella scelta fra il tricolore e le dodici stelle, e Mario Draghi, l'unico di loro ad avere davvero la stoffa per provarci, che però non è riuscito finora a ottenere uno scatto in avanti dai suoi ex colleghi.
La verità è che alle opinioni pubbliche europee è stata taciuta la più evidente delle verità: l'armonia tra gli Stati membri quando (e se) si raggiunge è sempre temporanea, frutto di una congiuntura particolare, e non può durare a lungo. Come sapeva bene Alexander Hamilton, padre fondatore degli Stati Uniti d'America, che a sostegno del suo progetto di una federazione fra le 13 ex colonie britanniche scriveva: "Sperare in una permanenza di armonia tra molti stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo". E come ha ripetuto recentemente e perentoriamente Mario Draghi: “O l’Europa agisce insieme e diventa un’unione più profonda, un’unione capace di esprimere una politica estera e una politica di difesa... oppure temo che l’Unione europea non sopravviverà altrimenti se non come mercato unico”; ma anche questo monito è caduto nel vuoto.
Le cicale europeiste hanno cantato troppo a lungo i successi ottenuti dai governi nazionali, uniti soprattutto dalla paura di scomparire, convincendo i loro lettori (nel caso degli opinionisti) ed elettori (nel caso dei politici) che quella gestione poteva funzionare per sempre; e oggi cicale, lettori ed elettori rimangono frastornati dalle vittorie delle destre populiste e antieuropee, dal rischio di un ritorno di Trump, dalla fatica nel sostenere l'Ucraina (e nel prevedere i tempi e i modi di un suo possibile ingresso nell'Unione), dalla difficoltà di prendere decisioni sulla stabilità e sostenibilità dei bilanci nazionali, e dal sabotaggio di iniziative a beneficio comune che però intaccano rendite di posizione elettorali negli Stati membri.
Abbiamo sprecato l'estate europea, e non sappiamo quanto sarà lungo l'inverno in cui stiamo entrando: quello che ci serve ora è la consapevolezza che non resta molto tempo per costruire un riparo per l'Europa, smetterla di dar retta a chi vuole ignorare la realtà, e discutere il progetto del Parlamento europeo. Non è perfetto, ma è l'unica cosa concreta che i governi possono fare subito; con tutte le sue qualità e i suoi meriti, che lo rendono perfetto per quel ruolo, servirebbe a poco infatti avere Draghi a capo della Commissione se i leader che ce lo mettono non accettano di cambiare strada. "Qui si fa l'Europa o si muore", avrebbe detto Garibaldi; speriamo che la prossima Commissione dica chiaramente "European Federation, whatever it takes".