Il fallimento della Brexit e le domande per gli europeisti
Istituzioni ed economia
Torniamo sul significato delle affermazioni di Farage in merito alla Brexit, e a quali domande dovrebbero far nascere tra gli europei più consapevoli (oltre a quelle già espresse, che però riguardano indistintamente quello che chiamiamo "Occidente").
Se è evidente anche ai suoi propugnatori che la Brexit per il Regno Unito è stata una disgrazia (e a prescindere dal fatto che secondo loro potesse andare molto meglio), bisogna interrogarci su un po' di questioni che finora abbiamo tenuto nascoste a noi stessi, mentre cercavamo a tutti i costi di dimostrare ai britannici l'enormità del loro errore.
Dovremmo per esempio continuare a chiederci che futuro vogliamo per l'Europa; quanto vogliamo che assomigli agli anni in cui il Regno Unito ne è stato parte; come arrivare a una relazione migliore con i sudditi e il governo di Sua Maestà il Re Carlo III, e cosa intendiamo con "migliore"; che cosa ci hanno insegnato la Brexit e gli anni successivi; e infine se sia il caso di portare queste domande a Bruxelles e a Strasburgo, per conoscere le risposte che darebbero capi di Stato e di governo, ministri, europarlamentari e commissari.
Il futuro dell’Europa è quella cosa di cui nessuno si occupa davvero, perché sono (quasi) tutti troppo impegnati a litigare sul presente: è un male diffuso anche a livello nazionale, ma sul piano continentale equivale a sgonfiare le ruote della bicicletta di Delors, mentre continuiamo a pestare sempre più furiosamente sui pedali cercando di muoverci dal pantano in cui siamo finiti.
Sì, perché quando manca un anno esatto alle elezioni europee (previste in Italia per domenica 9 giugno 2024) ci troviamo davanti a un clamoroso paradosso: mentre festeggiavamo (giustamente) gli avanzamenti e i successi del piano vaccinale, del Next Generation EU e della risposta unitaria e coesa alla sfida di Putin all’ordine mondiale, non ci siamo accorti che i nemici interni della costruzione europea hanno scelto di riposizionarsi, lasciando che la retorica sul rischio di consegnare l’Europa ai sovranisti si sgonfiasse per mancanza di nemici. E così abbiamo consegnato le chiavi delle decisioni politiche in Europa a una serie di governi sempre più condizionati o perfino guidati da movimenti euroscettici, nazionalisti o fortemente identitari (in ordine cronologico l’Italia, la Svezia e la Finlandia, a cui presto potrebbe aggiungersi la Spagna, e le sempre citate apripista Polonia e Ungheria).
La famigerata e composita “alleanza Ursula” è uscita dai radar parecchi mesi fa, e si parla sempre più dei tentativi dei popolari nel PPE di sganciarsi dal gruppo socialista di S&D, per avvicinarsi ai conservatori dell’ECR (a sua volta in cerca di cariche importanti e influenti in quelle istituzioni che fino a poco tempo fa disprezzava). È proprio la mancanza di una bussola chiara sul futuro dell’Europa (a sua volta figlia di un’ambiguità che queste riflessioni sulla Brexit cercano di smascherare) che ha trasformato l’emiciclo parlamentare di Strasburgo/Bruxelles in una notte in cui tutte le vacche sono nere.
E qui ci ricolleghiamo al fatto che non solo i Tories sono stati parte dell’ECR fino all’uscita, ma hanno dato la spinta decisiva alla sua formazione con David Cameron, che li ha spostati su quella posizione uscendo dal PPE dopo le elezioni del 2009. Sul rapporto collaborativo-distruttivo dei governi londinesi a Bruxelles sono state scritte molte riflessioni, fin dalla campagna per il referendum sulla Brexit e soprattutto dopo, e credo sia inutile tornarci.
La questione che dovremmo porci è quella di immaginare come sarebbe un’Europa in cui l’ECR, equivalente continentale dei conservatori britannici, avesse un peso rilevante nelle stanze dove si decide la sua linea politica (se non vi convince l’equivalenza tra Meloni e Morawiecki da un lato e Johnson e Sunak dall’altro, guardate cosa pensano i loro partiti sui migranti e chiedetevi se hanno posizioni meno indecenti di quelle di Priti Patel o di Suella Braverman): non ci vuole molto a capire che per il processo di integrazione (che inevitabilmente comporta una progressiva condivisione di sovranità su alcuni temi essenziali) si preannuncia una lunga pausa, come ai tempi di Margaret Thatcher; e teniamo conto che la prossima Commissione includerà comunque almeno 5 rappresentanti proposti da quei governi (o forse più, a seconda di quello che succederà in Spagna e altrove).
Ecco, dobbiamo immaginare ora che rapporto potrà avere questa Europa in arrivo con il Regno Unito post-Brexit: almeno per ora è impensabile una inversione a U della marcia, visto che il Labour non ci pensa nemmeno a mettere in discussione la scelta (nonostante i molti segnali che l’opinione pubblica potrebbe essere favorevole a revisioni in merito). Al massimo potrebbe esserci una decente cooperazione tra i governi di Downing Street e i colleghi del resto d’Europa, su alcuni temi in cui già oggi è evidente la reciproca convenienza: ad esempio la gestione sempre più chiusa delle ondate migratorie extra-europee, qualche possibile facilitazione per l’accesso di lavoratori stagionali e non specializzati, magari a fronte di una maggiore collaborazione sui temi dell’industria della difesa, della ricerca tecnologica e della transizione energetica. Ma con Bruxelles? Il commercio e il mercato unico, che è il vero tema su cui la sovranità della Commissione non è in discussione senza una riforma dei Trattati, potrebbero essere merce di scambio utile a entrambe le parti. Tutto questo a breve e medio periodo: se sul lungo però Londra decidesse di tornare a far parte dell’Unione a tutti gli effetti, per chi sarebbe un vantaggio? A quali condizioni potremmo riammetterla?
Saremmo disposti a barattare gli opt-out già concordati (anche decenni fa) in cambio di un ritorno? O non dovremmo approfittarne per chiarire una volta per tutte in che rapporto sta questa Unione Europea rispetto al progetto federativo delineato il 9 maggio 1950 da Schuman? Perché l’ambiguità a cui accennavo ha anche l’effetto che chi vuole vedere i passi avanti li vede comunque, e chi vuole mantenere lo status quo ci riesce lo stesso: ma non c’è una strada da seguire per i decenni che ci porteranno alla metà del XXI secolo*.
Se il futuro non è pianificabile, e l'Unione europea (soprattutto per via dei governi dei suoi Stati membri) nemmeno vuole essere chiamata a scegliere cosa desidera, allora arriviamo all’ultima delle domande: abbiamo almeno imparato qualcosa dalla Brexit, oltre al fatto che uscire dall’Europa è un danno irrimediabile? Perché questa era una cosa che molti di noi sapevano già, semmai è servito a chi faceva finta di non crederci che non è più un argomento spendibile (gli stupidi convinti che fosse davvero una cosa buona non li consideriamo, ne ha già parlato abbastanza Carlo Cipolla). Non ne sono sicuro: sarebbe bene per esempio che l’evidenza portasse all’espunzione o all’abrogazione, nella forma più veloce possibile, del famigerato articolo 50. Far finta che non ci sia, con l’idea che tanto nessuno lo invocherà nuovamente, è una scappatoia che dovremmo togliere di mezzo prima che si perda la memoria collettiva dei danni che ha causato, finché i governi sono concordi nel giudicare un errore quella procedura.
L’altra cosa che dovremmo aver imparato è che non si può disgiungere il mercato unico dalla politica: lo vediamo per esempio quando si parla di Intelligenza Artificiale, di de-risking, di forniture strategiche, di materie prime e di investimenti verso e da Stati ostili. Sono tutte cose che aveva già capito Altiero Spinelli nel 1956, quando scrisse il “Manifesto dei federalisti europei”: ma poi i successi dell’integrazione avevano convinto molti burocrati che la tecnocrazia delle regole concordate diplomaticamente fosse preferibile alla democrazia delle scelte parlamentari e alla responsabilità di un vero potere esecutivo.
E per finire, le spese militari e il sostegno all’Ucraina: stiamo ancora dimostrando di credere che l’unità a 27 terrà a lungo. Non è affatto certo, invece: esattamente come con i negoziati per la Brexit, è in gioco il futuro dell’integrazione e su questo le istituzioni e gli Stati membri hanno fin qui sempre dimostrato di sapere che il bene superiore deve prevalere. Ma un incidente di percorso è sempre possibile, come è accaduto vent’anni fa con i referendum in Francia e Olanda per la ratifica del Trattato uscito dalla Convenzione: e questa volta l’incidente può far deragliare del tutto il convoglio, non solo segnare una battuta d’arresto. Ma anche qui è lecito avere il dubbio che gli europei e i loro governanti non abbiano capito bene cosa c’era da capire della Brexit per quanto ci riguarda.
* Una piccola nota a margine, su cui sarà necessario tornare più avanti: pensare al possibile rientro del Regno Unito nell’Unione Europea equivale a pensare all’allargamento a nuovi membri, e in particolare a quelli nei Balcani e all’Ucraina, alle modalità con cui può essere realizzato e alle opportunità/rischi che comporta.