Farage, la Brexit e le domande da farci
Istituzioni ed economia
Nigel Farage ha ammesso in una recente intervista alla BBC che la Brexit è stata un disastro. Questo è il fatto, riassunto per come lo hanno riportato nei titoli i mass media: come spesso succede, anche stavolta i titoli hanno semplificato e rimosso “il superfluo”; e così chi non ha letto oltre probabilmente ha capito il contrario di quello che significa la notizia.
La lettura corretta la dà l’articolo di The Guardian: non è una buona notizia, anche se l’ammissione è un fatto destinato a rimanere. Gli effetti della Brexit, per come è stata gestita (su questo torniamo subito), sono disastrosi e non è più possibile fingere il contrario. Ma è proprio quell’inciso che dà il significato a tutto il resto: secondo Farage non è l’idea in sé della Brexit a essere sbagliata, ma la sua realizzazione. I più giovani forse non ne hanno il ricordo, ma queste sono esattamente le parole con cui per decenni (anche dopo la caduta del Muro di Berlino) i fautori del socialismo reale rifiutavano di accettare il fallimento sovietico, distinguendo tra le (buone) idee marxiste e la loro realizzazione (malata) nei regimi oltre la Cortina di Ferro.
Questa fuori dal Regno Unito è però solo una (significativa) nota di colore: l’articolo spiega invece molto bene perché per i britannici segna l’inizio di un percorso complicato e pericoloso (che, a mio modo di vedere, a un certo punto può anche includere Farage stesso vicino o dentro il numero 10 di Downing Street). Da questa parte della Manica sono invece altre le cose su cui sarebbe utile riflettere: sono questioni enormi, per le quali sarebbe bello poter scrivere «ho una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non entra nel margine stretto della pagina»; ma la verità è che bisognerebbe smetterla di parlare di tante cose da niente di cui sono pieni i giornali, e concentrare le nostre poche forze nel ragionare su quello che è davvero importante.
Quali sono i temi che le dichiarazioni di Farage ci chiamano a discutere, almeno per elencare gli argomenti? Il primo è il rapporto tra ricerca del consenso e verità nelle liberaldemocrazie; il secondo, che del primo è in qualche modo una diramazione pratica, è quanto residuo potere abbia la politica nel cambiare la realtà che vuole governare; il terzo, che del secondo è una diramazione più filosofica (ma con concreti riflessi pratici), è quanto potere sia auspicabile che la politica abbia, e quali dovrebbero essere i limiti a quel potere; il quarto è quello che dovrebbe stare più a cuore a chi ama l’Europa e i valori che la Gran Bretagna ha rappresentato a lungo per il Vecchio Continente, e sarà necessario affrontarlo in un secondo momento.
Partiamo quindi dall’ambiguità con cui chi fa politica cerca di ottenere consenso per le proprie idee, a scapito di altre: in una democrazia che funziona, il cittadino è in possesso degli elementi con cui giudicare la verità dei fatti da cui partono i ragionamenti, e può (se vuole) tentare di verificare che le proposte avanzate abbiano una rispondenza logica con quei fatti (incontrovertibili) e con le soluzioni che si vogliono ottenere.
Nel caso della Brexit, uno degli slogan più noti e contestati era quello dei 350 milioni di sterline che la Brexit avrebbe reso disponibili per il National Health Service: il semplice fatto che questo argomento sia stato proposto, sapendo di mentire, ci dimostra per l’ennesima volta che l’opinione pubblica spesso non è in grado di sorpassare i propri bias cognitivi, nemmeno di fronte alle peggiori bugie o al più rigoroso fact checking. Non che sia questione di oggi: qualsiasi calcolo sul peso elettorale sarà sempre discutibile e incerto, ma anche la DC di Alcide De Gasperi certamente trasse qualche vantaggio dalla “Madonna pellegrina”, la campagna di propaganda gestita da Luigi Gedda per le elezioni del 1948. E quindi non si può semplicemente ricondurre tutto, con un presentismo d’accatto che non spiega niente e non propone alcuna lettura problematica (né vere soluzioni), al ruolo dei social media e delle fake news, a Cambridge Analytica e alle paure verso i contenuti generati dalle (cosiddette) Intelligenze Artificiali.
Senza pretesa di andare oltre (almeno per ora) proviamo adesso a concentrarci sul punto successivo, cioè la capacità della politica, una volta ottenuto in qualche modo il consenso, di affrontare la realtà e le sue sfide: qui mi pare che la lezione della Brexit sia più trasparente, a volerla leggere, perché corroborata da molte altre vicende analoghe, anche più vicine a noi. La politica può affrontare le sfide in modo tanto più concreto quanto meno ha usato l'ideologia per convincere l’opinione pubblica; vale per tutto, dalla TAV alla messa in sicurezza dei territori dal rischio idro-geologico, dalla transizione ecologica alla Brexit: se il consenso elettorale si ottiene con proposte che mostrano anche i limiti della politica, oltre che le possibilità, se si accetta di dire (o di sentirsi dire) che le scelte sono sempre legate a un insieme di opportunità, di costi (per qualcuno) e di benefici (per qualcun altro) i passaggi successivi sono più semplici e le probabilità di qualche risultato più alto.
C’è inoltre un aspetto che può facilitare la soluzione di alcuni problemi: ammettere che siamo diventati impotenti al livello (nazionale) a cui potevano essere affrontati in passato e che è necessario condividere la sovranità per poterli gestire; ma allo stesso tempo che alcune questioni prima affrontate rigidamente a un livello superiore dovrebbero scendere a un livello dove le soluzioni possono essere più efficaci e flessibili. Tutte le scelte a questo punto sarebbero legittime, se adottate in modo democratico? Dal punto di vista teorico più o meno sì, inclusa la Brexit; anche se non sono tutte scelte che ottimizzano costi e benefici, come piacerebbe a chi ha studiato l’economia solo sui libri, e crede che l’homo oeconomicus sia un essere più reale dei maghetti di Hogwarts.
Bisogna di nuovo accontentarsi di aver appena inquadrato l’argomento, e concentrarsi sul terzo (e per ora ultimo) punto: la politica deve avere dei limiti, nello svolgere il proprio programma in una liberaldemocrazia? Può sembrare ovvio, ma non è così scontato: la Brexit è stata in un certo senso il trionfo del metodo democratico, visto che è stata riconfermata da voti nazionali schiaccianti a favore di chi voleva portarla avanti e il Labour, che viaggia con il vento in poppa nei sondaggi, non sembra intenzionato cambiarle verso, vuole solo gestirla diversamente; e allo stesso tempo il suo suicidio sotto altri profili. Si può impedire un suicidio? Sì, certamente. Si deve impedire? Questione ben più delicata, anche se in questo caso si tratta di un suicidio collettivo e metaforico.
Poniamo pure che ci debba essere qualcuno o qualcosa che abbia questo potere di impedire scelte che danneggino il bene pubblico: chi dovrebbe essere chiamato a tale compito? Quali sarebbero i suoi poteri, quali le caratteristiche personali che dovrebbe avere? Come sarebbe possibile evitare che sbagli o che venga percepito come una delle parti in causa, invece che un arbitro imparziale? In un certo senso è il ruolo che da noi rivestono il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale: eppure l’uno e l’altro non sono enti soprannaturali e infallibili e, se finora i meriti di chi ha rivestito quegli incarichi superano largamente gli eventuali errori, vale sempre la regola che «i rendimenti passati non sono indicazione o garanzia di quelli futuri». Vale appena la pena ricordare che persino negli Stati Uniti la Corte Suprema è ormai un organo fortemente politicizzato.
Tutti questi sono i temi che suona la campana che ha fatto rintoccare Farage in morte della Brexit; ma dovremmo ricordarci che è stato proprio un grande poeta inglese a dirci che in realtà essa suona per noi: noi europei, in particolare, e su questo torneremo in un prossimo articolo.