Cameron Johnson

Una delle grandi differenze tra la politica britannica e quella italiana è la cultura del fact checking. In Italia il controllo sui dati pubblicati si sta pian piano affermando, grazie all’opera di eroici giornalisti abituati a studiare i fatti di cui scrivono. Nel Regno Unito è, da decenni, una colonna portante di un dibattito politico pragmatico e basato su fatti oggettivi. Tuttavia, rigirare i dati a proprio piacimento è un vizio noto della politica in tutto il mondo, e, anche in UK, i sostenitori delle campagne per il Referendum sull’UE del 23 giugno non sono da meno.

Leave/Remain, the facts behind the claims” è stato redatto da “Full Facts”, una delle più grandi associazioni di fact checking nel Regno Unito e da “The UK in a Changing Europe”, un think tank che studia le relazioni tra Londra e Bruxelles. Il report studia alcune affermazioni fatte da entrambi i comitati referendari, sullo stesso argomento, incrociandone i dati. Presta molta attenzione ai numeri riportati sia dal Governo che da Boris Johnson & co., studiando in particolare le metodologie di raccolta, la puntualità e l’accuratezza dei dati utilizzati come strumento di propaganda.

Lo studio si focalizza su 12 punti in particolare: la burocrazia, il controllo democratico, i costi e i benefici economici, le esportazioni, l’immigrazione, l’impatto sulla legislazione, il costo legato all’essere membri dell’UE, il caso della Norvegia, regolamenti e mercato unico, sicurezza, regole commerciali, influenza del Regno Unito nella politica internazionale.

La parte sulla burocrazia è più informativa che di vero e proprio fact checking. Spiega qual è il ruolo della Commissione Europea, sottolineando come essa non sia l’unico organo a prendere le decisioni all’interno dell’UE e specificando le sue funzioni e i suoi poteri. Qui si comprende meglio l'obiettivo del report, che non è funzionale a smontare le tesi di una delle due parti o di entrambe, ma a fare informazione su cosa si andrà a votare al referendum e chiarezza sui temi più dibattuti.

Idem per il secondo capitolo, quello sul livello di democrazia interno all’UE. I sostenitori del Leave dicono che all’interno dell’UE non c’è un livello di democrazia paragonabile a quello degli Stati Membri, ed è vero. I sostenitori dello Stay ribattono che l’UE, per essere un organismo internazionale, ha un livello di democrazia senza paragone alcuno con altri enti come l’ONU, la NATO, il WTO etc. Vero anche questo. I professori Hagemann ed Usherwood, che hanno curato questa sezione del report, sostengono che sia complesso trovare un punto di equilibrio democratico tra i tecnicismi richiesti dalla burocrazia e le esigenze della politica, bilanciando al tempo stesso il rapporto tra i cittadini e gli Stati Membri. Il dilemma non è emerso solo durante il dibattito sulla Brexit, ma è una grande costante del percorso di integrazione europea.

Il capitolo sui costi e i benefici economici ha invece al suo interno un po’ di “ciccia” ed è abbastanza stuzzicante, dal momento che le "bollette della luce" che arrivano da Bruxelles sono il vero punto centrale del dibattito, e i dati vengono usati come grimaldello da entrambi gli schieramenti. Full Facts e The UK in a Changing Europe hanno cercato di fare chiarezza. I due think tank sostengono che i “costi dell’Europa” propagandati dalla campagna per il Leave (dalle £ 3000 alle oltre £ 9000 sterline annue pro capite) non reggono. Il dato, afferma Jonathan Portes, deriva da un’interpretazione errata, effettuata mischiando studi diversi, combinando differenti metodologie e con report che sono stati realizzati in anni abbastanza lontani. Portes sostiene, peraltro, che qualsiasi stima per il futuro, da entrambe le parti, non potrà che essere errata, perché l'evoluzione della situazione dipenderà interamentedai trattati commerciali con l’UE in caso di Brexit e dalle future politiche economiche del governo, che ancora non si conoscono.

Fa un discorso abbastanza relativista, Portes, sostenendo che alcune regioni e alcuni settori potrebbero essere più penalizzati dalla Brexit, mentre altri potrebbero trarne vantaggio. Al tempo stesso riporta alcuni studi di Oxford Economics, del Financial Times che ha intervistato 100 economisti sul tema, del Centro per la Performance Economica della London School of Economics e di Price Waterhouse Coopers, i quali sostengono che, nel medio periodo, il Brexit porterebbe più costi che benefici all’economia britannica.

Angus Armstrong, che ha curato la parte relativa al commercio, dimostra a sua volta di avere una visione abbastanza relativista. Il futuro del commercio britannico, se Londra divorziasse da Bruxelles, dipenderebbe dalle condizioni degli accordi di libero scambio successivi. In base ad essi sarebbe possibile determinare anche l’impatto del cosiddetto “Effetto Rotterdam”, che altera i dati delle esportazioni verso l’UE, dal momento che gran parte delle merci che vengono spedite dal Regno Unito verso il resto del mondo passa dal porto olandese, figurando di fatto come “export intraeuropeo”. Armstrong sostiene che sul punto dello scenario post-Brexit hanno ragione entrambi gli schieramenti: è altamente probabile che l’UE sarebbe comunque disposta a negoziare degli accordi di libero scambio, come sostengono i sostenitori del Leave, ma è al tempo stesso ugualmente valido l'argomento dei sostenitori dello Stay, cioè che tali accordi non avrebbero, in ogni caso, lo stesso valore economico della partecipazione al mercato unico.

Sull’immigrazione, Full Facts e The UK in a changing Europe concordano quasi interamente con il Governo: la Brexit avrebbe un impatto minimo sugli ingressi nel Regno Unito, che sono prevalentemente extra-UE. I controlli alle frontiere sono già in atto, non essendo le isole firmatarie del trattato di Schengen. La fine della libertà di movimento potrebbe portare alla fine degli accordi commerciali con l’UE, rischio che ha corso la Svizzera nel 2014. Del resto i paesi membri della EEA, ma non dell’UE, hanno le stesse regole sulla libertà di movimento degli Stati Membri. Insomma, una grande riduzione dell’immigrazione, anche comunitaria, sarebbe possibile solo in caso di rinuncia all’adesione al mercato unico.

A quel punto, però, verrebbero penalizzati i cittadini britannici oltremanica (più di un milione, concentrati soprattutto in Spagna), che si vedrebbero negati i diritti di cui attualmente godono in quanto cittadini europei. Il numero, tuttavia, è inferiore a quello propagandato dal Governo, che si rifà a dati vecchi, relativi a 2,2 milioni di britannici all’estero. Altro dato che il report invita a considerare è quello della fiscalità: gli immigrati dagli altri Paesi dell’EU pagano in media più tasse rispetto ai servizi pubblici di cui usufruiscono.

Damian Chalmers si è poi occupato di un’altra questione parecchio tirata per la giacchetta dai referendari: si tratta della percentuale che valuta l’impatto della legislazione europea su quella britannica. Boris Johnson, oltre allo slogan dei “350 milioni di sterline a settimana” parla spesso del “64% di leggi dettate da Bruxelles”. Gli “europeisti” di Remain sostengono invece che si tratti del 13%. Chalmers spiega che, anche qui, in medio stat virtus. I dati di Business for Britain, che portano il numero al 64%, sono fuorvianti in quanto tengono conto degli emendamenti alle leggi, che però leggi non sono. Al tempo stesso il 13% di Remain non tiene conto dei regolamenti UE, di cui tecnicamente si può dire che non “influiscano” sulla legislazione britannica, in quanto vengono recepiti automaticamente dagli Stati Membri, ma che sono pur sempre “leggi approvate a Bruxelles”.

A inizio capitolo lo studioso fa un’altra distinzione tra le leggi, secondo il tipo e l’argomento. Su alcuni settori, come il commercio, la pesca, l’agricoltura e l’ambiente, l’Europa ha competenza quasi esclusiva. In altre, come la sanità, il welfare, la difesa, la tassazione e la politica estera, ha pochissimo potere. Considerando che Londra non ha aderito né all’Euro né a Schengen, l’influenza di Bruxelles è persino inferiore a quella che la Commissione e gli altri organi hanno sugli Stati Membri dell’Eurozona.

Lo stesso ago della bilancia si presenta quando si parla della membership fee, ossia quanto, in soldoni, il Regno Unito paghi per essere uno Stato Membro. Il dato dei “350 milioni di sterline a settimana” è già stato definito scorretto da tempo, dal momento che calcola solo il contributo di Londra al budget europeo, senza considerare le somme che ritornano sotto forma di fondi europei, o in seguito alla rinegoziazione già firmata dalla Thatcher nel 1984. Falso è però anche il dato di Remain, secondo cui si risparmierebbero solo £ 5 miliardi, se si sottraesse ai £ 9 versati dal budget la quota che andrebbe pagata se si volesse far parte del mercato unico, come la Svizzera. Secondo il fact checking il dato è una speculazione, dal momento che prende come esempio un caso specifico – quello svizzero – di cui peraltro gli ultimi versamenti noti risalgono al 2009.

Damian Chalmers si occupa nel report anche del caso della Norvegia, usata come case study nel dibattito, in quanto membro dell’EEA ma non dell’UE. È falsa l’idea propagandata dalla campagna per il Leave, secondo cui la Norvegia può dribblare le direttive europee a proprio piacimento. Ogni legge emanata dall’Unione Europea, che riguardi il commercio o la pesca, dopo essere stata approvata viene passata ai legislatori della EEA, che devono produrre dei testi “quanto più possibile vicini” a quello originale. Il potere contrattuale della Norvegia nella stesura dei testi è molto relativo, e riguarda soltanto la flessibilità dell’accezione “quanto più possibile vicini”.

Il Regno scandinavo può avvalersi di un “diritto di riserva” quando non vuole approvare una legge europea, ma secondo Chalmers questo è avvenuto solo nel 2011, quando la direttiva sui servizi postali richiedeva una privatizzazione degli stessi. Il caso specifico è stato usato come leva da Farage e Johnson, ma contrasta con le 627 altre volte in cui Oslo ha accolto la legislazione comunitaria. Peraltro, il ricorso al diritto di riserva comporta delle restrizioni al commercio tra UE e paese EEA che lo esercita in quel particolare settore, quindi nel 2013 la Norvegia ha fatto marcia indietro anche sui servizi postali.

Chalmers ritiene inoltre inopportuni i paragoni con il costo dell’appartenenza alla EEA della Norvegia (di sole 5 sterline pro capite inferiore a quello dell’UK all’UE) perché il sistema di pagamenti è differente: Oslo non versa i contributi direttamente nel budget comunitario, ma paga tramite prestiti agli Stati Membri in difficoltà. Ugualmente impossibili i paragoni, secondo lo studioso, con Svizzera e Canada.

Anche la sezione sui regolamenti e il mercato unico sgonfia un po’ le aspettative di chi crede che fare a meno di Bruxelles significhi guadagnarci. Secondo il report, gli studi di impatto realizzati dal Governo sono poco affidabili come fonte, perché coinvolgono troppe variabili, mentre sono pochi gli studi realizzati in seguito all’implementazione delle direttive. Il dato dei sostenitori Leave, secondo cui i primi 100 regolamenti europei per importanza costerebbero al Regno Unito “33 miliardi di sterline”, è lontano dalla realtà.

Tuttavia Chalmers e Portes danno ragione agli euroscettici quando sostengono che Londra avrebbe più flessibilità nel dettare le proprie regole di scambio, anche se va tenuto conto che dovrebbe pur sempre adeguarsi a quelle europee per esportare nel continente. Avere leggi meno armonizzate rispetto a quelle dei paesi comunitari potrebbe tradursi in costi ulteriori per chi vuole fare business all’estero. Allo stesso tempo il report è tiepido nel pronunciarsi nel capitolo sul commercio, sostenendo che, fino a quando non verranno sottoscritti nuovi accordi commerciali in caso di Brexit, quelle di entrambi gli schieramenti sono soltanto supposizioni.

Il capitolo sulla sicurezza, curato da Richard Whitman, è piuttosto chiaro: il tema, centrale nel dibattito politico, con l’appartenenza all’UE non c’entra nulla. Il Regno Unito applica già controlli alle frontiere, non essendo membro di Schengen, e sottopone allo stesso sistema cittadini comunitari e no. L’unico privilegio degli europei è una coda apposita al controllo passaporti, che ne velocizza l’ingresso nel paese. Tuttavia i controlli sono esattamente gli stessi. Peraltro Londra beneficia parecchio di alcuni capitoli di Schengen che ha voluto firmare, come il SIS, il sistema di informazione, un database che ha permesso di arrestare molti sospetti, in combinazione con il Mandato di Arresto Europeo. A molti di questi programmi partecipa anche la Norvegia, pur non essendo uno Stato Membro. Nel 2014 Londra ha emanato 228 mandati di arresto e ne ha ricevuti oltre 13.000.

Non è ovviamente stata ancora sottoposta a fact checking la recentissima dichiarazione di David Cameron, secondo cui l’Europa rischierebbe di andare incontro ad anni di guerre se il progetto europeo dovesse sfaldarsi, partendo dalle bianche scogliere di Dover. Tuttavia, nel suo monito forse un po’ “elettorale”, riecheggiano le parole di uno che la guerra l’ha vissuta (e vinta) per davvero, Winston Churchill, che in un celebre discorso all’Università di Zurigo auspicò l’unità del continente per costruire un futuro di pace.

Anche la sezione sull’influenza del Regno Unito all’interno dell’Unione Europea smonta parecchie bufale. Il report è così accurato che persino alcuni funzionari del Governo hanno chiesto dei dati ai redattori. I sostenitori del Leave dicono tra i loro slogan che il Governo Britannico nel Consiglio dei Ministri Europeo ha votato 72 volte “no” ad un provvedimento e in tutti e 72 i casi ha perso. Tuttavia, l'affermazione è incompleta e manipolata. I dati ufficiali del Consiglio Europeo, infatti, mostrano che dal 1999 l’UK ha votato “no” in 57 occasioni, si è astenuto 70 volte e ha approvato 2474 pacchetti legislativi. Il che significherebbe che Londra ha “vinto” nel 95% dei casi. Inoltre, è inesatto dire che avrebbe "perso" ad ogni voto negativo, poiché questo conteggio non considera soltanto gli ultimi passaggi della produzione della legge, quindi un pacchetto cui si è votato “no” potrebbe essere stato in seguito emendato nella direzione suggerita, e approvato nella nuova forma.

Il report fa inoltre chiarezza su cosa s’intenda con “il Regno Unito ha votato”, poiché a rappresentare Londra (e Cardiff, ed Edimburgo, e Belfast) in Europa ci sono anche i membri del Parlamento Europeo, le cui idee non sempre (anzi, raramente) collimano con quelle di Downing Street. Non sono anche loro rappresentanti del popolo britannico con il potere di influenzare il processo legislativo europeo? Ugualmente, la frase dei sostenitori dello Stay per cui “è difficile trovare un regolamento europeo significativo che sia stato reso obbligatorio anche a fronte di un voto contrario di un ministro britannico” è fuorviante: il concetto di “significativo” varia per interessi e posizioni politiche.

Il report, lungo 28 pagine, si trova online sul sito di Full Fact e su quello di The Uk in a Changing Europe. È un bell’esercizio di ragionamento e di verità, che mette entrambe le parti politiche di fronte ai fatti e mostra fino a che punto la propaganda sia in grado di rigirare i dati a proprio piacimento.