E se Cameron avesse un piano?
Innovazione e mercato
Il primo impatto con l’Europa in qualità di leader David Cameron lo ebbe un anno prima di venire eletto Primo Ministro. Era il 2009 quando fondò con altri 'eurorealisti' il gruppo ECR al Parlamento Europeo. Pilastri fondamentali: la libertà economica unico fondamento dell’UE e il rifiuto del progetto federalista. L’anno dopo approda a Downing Street, mentre la crisi economica fa vacillare l’Unione Europea e attizza gli umori euroscettici oltremanica.
Sa che faticherà a contenere le pulsioni anti-UE del suo partito e l’avanzata dell’UKIP; sa anche che che la fila di rivali pronti a pugnalarlo alle spalle pur di rubargli il posto da Primo Ministro è sempre più lunga. Decide di indire il referendum, subito, entro un anno dalla sua elezione; nel frattempo, forte anche di questa leva, va a Bruxelles dove strappa a Tusk un negoziato che nasconde vantaggi solo per il Regno Unito: limiti ai benefit, nessuna integrazione ed uno scudo verso i pasticci dell’eurozona. Nell’ombra il progetto dell’UE a due velocità, con l’appoggio di altri leader e della ragione che 28 stati faticheranno ad aderire in massa e rapidamente ad un progetto federale.
Il piano A, ovviamente, è vincere il referendum e aspettare che altri capi di stato, minacciando di utilizzare anche loro consultazioni popolari, vadano a Bruxelles a chiedere privilegi, fondando di fatto quell’Europa a due velocità unica alternativa al monstrum federale.
Il piano B è quello da realizzarsi in caso di sconfitta, ed è stato ben descritto da un commento sul Guardian che ha scatenato il dibattito nel Regno Unito. Un piano che sembrerebbe machiavellico se non fosse forzato dagli eventi, e parrebbe complottista o retroscenista se non fosse ragionevole.
Cameron si è dimesso prima di ricorrere all’Articolo 50 e lasciando, di fatto, il pallone in mano al suo successore. Johnson e Gove sono stati vincitori travolti dagli eventi: il crollo della sterlina, la minaccia di disgregazione del Regno, con tensioni in Scozia, Ulster e Gibilterra, la fuga delle multinazionali, un partito spaccato.
Il referendum - sebbene la volontà popolare, pur risicata, sia stata chiara - è consultivo. Serve il voto di Westminster per uscire veramente dall’UE. Tra Conservatori leali a Cameron, SNP, Laburisti e Libdem, la Camera dei Comuni è un "covo di europeisti" e quella dei Lord pure, come spiegava prima del voto l’Economist. I brexiters non hanno un vero piano per il post-referendum, non l’hanno mai avuto e cercano di prendere tempo. Sanno che il successore di David Cameron, chiunque sia, dando seguito al risultato del referendum distruggerebbe l’unità nazionale, sarebbe in carica in un momento di enorme difficoltà, avrebbe mezzo paese e mezzo partito contro e verrebbe spazzato via alle prossime elezioni generali.
Meglio aspettare qualche mese, far crescere la paura, far licenziare qualche impiegato nella City e nelle fabbriche di auto del Nordest, fare aumentare la tensione nelle periferie ed arrivare alla Conferenza Nazionale dei Conservatori di Ottobre con un suo erede (i fedelissimi May o Osborne) che prometta una rinegoziazione – o di attuare quella firmata da Cameron e Tusk - che annulli tutte le pretese politiche di Bruxelles. Un piano che potrebbe essere portato a termine dallo stesso Boris Johnson, meno anti-UE di quanto dimostrato durante la campagna referendaria.
Niente ripercussioni sulla libera circolazione – che al paese fa bene – e al mercato unico, l’unico punto che interessa ad Albione. Insomma, l’UE al netto del red tape burocratico e del sogno federale. Un ingresso nella EEA che potrebbe ricevere le attenzioni di molti imitatori e una tiepida simpatia da Bruxelles, libera da opt out di Londra che però rimarrebbe un partner commerciale pieno. Un compromesso che potrebbe andare bene anche alla Scozia, che potrebbe continuare a ricevere fondi e non dovrebbe consegnare, in caso di secessione e di eventuale accelerazione del progetto federale, una rinnovata sovranità nazionale allo Juncker di turno.
Un win-win per David Cameron, che con le sue dimissioni ha passato la patata bollente ad altri. Con un amico a Downing Street, un Labour allo sbaraglio ed un’UKIP penalizzata dal sistema elettorale. Un “piano” forse più dettato dagli eventi che studiato a tavolino e ad alto livello di speculazione, ma che potrebbe funzionare.