Il voto come esorcismo. La sindrome psico-politica della democrazia italiana
Istituzioni ed economia
Se Fratelli d’Italia ha raccolto da sola un terzo dei voti in più di quelli raggranellati insieme da Lega e Forza Italia, è perché i miracoli promessi da Giorgia Meloni sono apparsi all’elettorato di destra più seducenti di quelli, invero assai miracolosi, promessi da Matteo Salvini e Silvio Berlusconi?
Se il Partito Democratico non è riuscito ad attrarre i voti dell’elettorato grillino – per inglobare il quale, col ricatto del voto utile, Letta aveva machiavellicamente escluso il M5S dalla coalizione progressista – è perché Conte appariva più pulito e estraneo del segretario del PD al sistema di potere che pure, per buona parte della legislatura, aveva personalmente incarnato, pure in versione double face?
Ci sono forse spiegazioni meno banali e convenienti di quelle che leggiamo quotidianamente sui giornali, ma anche più allarmanti, per questa ricorrente ricerca di un salvatore, che è divenuta la caratteristica più significativa e, nella sua continuità, strutturale della travagliatissima democrazia italiana. E queste spiegazioni aiutano meglio della decrittazione della propaganda e dei programmi politici dei partiti a spiegare come l’apparente volatilità dell’elettorato replichi da anni un meccanismo immutabile, pur con diversi e mutevoli protagonisti.
Nell’Italia in cui la democrazia è degradata a caravanserraglio di emozioni primarie (rabbia, tristezza, paura, disgusto disprezzo) non solo la polarizzazione del voto è essenzialmente negativa – si vota in generale contro qualcosa o qualcuno – ma le stesse identità ideologico-valoriali sono considerate di norma una sovrastruttura sospetta, se non rispondono a un riflesso psicologico e a un vissuto considerato autentico, solo perché percepito come urgente o doloroso.
Il risultato è che l’identità più forte e profonda degli elettori rimanda in realtà a una condizione di alienazione personale e sociale – in larga misura indipendente dalle condizioni culturali e reddituali – e di vera e propria dissociazione politica. Per lo più gli elettori italiani pensano e votano come se tutto quello che è accaduto politicamente in Italia negli ultimi decenni non appartenga alla loro personalità e responsabilità politica e non faccia parte della biografia individuale e della storia collettiva di ciascuno di loro.
Come la dissociazione psichica, anche quella politica è una strategia di gestione di un trauma, che minaccia l’unità e l’integrazione della persona e viene dunque relegato fuori dal perimetro del sé cosciente. L’antipolitica, nelle sue diverse manifestazioni populiste e sovraniste, è esattamente la risposta alla minaccia di un presunto “fuori di sé” – l’Europa, l’immigrazione, la globalizzazione, le multinazionali… – e a questa risposta si attaglia in modo abbastanza indifferente chiunque appaia in grado di esorcizzare il fantasma della sconfitta e il terrore dell’impotenza di fronte al pericolo della rovina.
Da questo punto di vista il 25 settembre Meloni era meglio di Salvini, per non dire di Berlusconi, perché forte di una immacolata estraneità alla gestione del potere, grazie a una lunga rendita di opposizione. Il fatto che a differenza dei due alleati non abbia passato la campagna elettorale a promettere l’impossibile, semmai a anticipare la prudenza che dovrà mostrare da capo del Governo, non ha minimamente compromesso il favore dell’elettorato che dopo essersi votato a Conte, e poi a Salvini, è transitato festosamente nelle sue fila.
Salvini ha pagato il Papeete, non nel senso dello spregiudicato azzardo e della ricerca dei “pieni poteri”, ma della sconfitta del suo disegno. Il segretario leghista, già prima delle elezioni, appariva a molti, che applaudivano pochi anni prima il Capitano, come uno sfigato destinato alla rapida rottamazione. Berlusconi appariva, ancora più disperatamente, un sopravvissuto alla fine della sua leadership politica. Meloni ora è fortissima perché ha vinto, ma vale anche l’inverso, cioè che ha vinto perché era fortissima di fronte alle debolezze dei suoi alleati.
Nel caso del M5S, la resistenza elettorale è stata determinata dalla capacità di soddisfare un sentimento antisistema, che proprio la sfiducia di Conte a Draghi ha riconfermato, riscattandone l’immagine di professionista del Palazzo maturata alla testa di due esecutivi di segno opposto. Conte ha conservato una immagine perfettamente congruente ai desideri di un elettorato, come quello grillino, soggiogato dall’illusione della palingenesi nichilista e del nothing's impossible. Non è stata la coerenza e l'efficacia delle proposte, in cui Conte certo non brilla, ma la corrispondenza allo "stato di dolore" del popolo, che non chiede lenimento, ma riconoscimento, a segnare la fortuna del capo politico del M5S.
Malgrado l’inseguimento dei grillini sul loro stesso terreno, con l’abiura del Jobs Act e della deriva neo-liberale del progressismo riformista, il PD non appariva credibile, proprio perché ancora ancorato alle compatibilità di governo, a un draghismo sempre più imbarazzato ma non rinnegato, a una lunga esperienza di potere senza consenso, che ne hanno fatto l’immagine stessa del Sistema, cioè di quel male che gli elettori populisti vogliono visibilmente confinato nel “fuori di sé”, avvertendolo contro di sé.
Alla luce di tutto ciò, si può dire che la democrazia italiana non è minacciata e compromessa da radicalismi di segno opposto, ma da un estremismo psico-politico sostanzialmente indifferenziato in termini ideologici e quindi convertibile in una cosa, come in quella contraria, con elettori sempre più incontrollabili e volatili nei pensieri e sempre più prevedibili e manovrabili nei comportamenti.