mariupol teatro grande

La vita quotidiana è un insieme ininterrotto di atti di fiducia. Usciamo di casa sicuri che l’ascensore non precipiterà e che la metropolitana non deraglierà, mangiamo cibi acquistati al mercato sicuri che non ci avveleneranno, usiamo dispositivi elettronici per fare operazioni bancarie sicuri che nessuno ci stia rubando i quattrini. E si potrebbe continuare.

Questa relativa sicurezza – relativa ma solida abbastanza da non farci vivere in una condizione di perenne incertezza o di panico – non dipende da cosa sappiamo, ma da cosa crediamo, cioè da un atto di fiducia.

Non è una fiducia irrazionale. È una fiducia nel processo che porta a garantire la sicurezza di tutte ciò che utilizziamo per la nostra vita. Mangiamo fiduciosi i funghi comprati al mercato non perché sappiamo distinguere quelli velenosi da quelli commestibili, ma perché crediamo nell’affidabilità del sistema di controlli e sanzioni, che peraltro neppure conosciamo, ma che serve a impedire che un’amanita falloide finisca sul banco del frutta-e-verdura dove facciamo la spesa.

Insomma, anche il più forsennato cospirazionista per vivere non può che credere a un qualche sistema di informazioni che collega, sul piano della fiducia, gli atti di milioni di persone e consente alla società di funzionare in base a interazioni spontanee. Per questa fiducia, pensiamo però – sbagliando – di avere meccanismi di verifica personale sufficientemente affidabili. Ad esempio: non ho mai sentito che uno sia morto mangiando un fungo comprato al mercato. Pensiamo di avere una riprova empirica, invece la validità di una informazione è semplicemente data da un’altra informazione.

Quindi di fatto tutta la nostra fiducia è sempre una fiducia nel sistema di informazione che utilizziamo. Infatti è sufficiente una campagna di (dis)informazione bene orchestrata per scatenare il panico in una popolazione che cessa di fidarsi di qualcosa – ad esempio dei vaccini – o inizia a diffidare di qualcuno – ad esempio degli ebrei – perché “ha saputo” qualcosa, cioè ha ricevuto determinate informazioni. Ma anche la sfiducia, è in particolare la sfiducia in determinati canali di informazione – tipicamente quelli cosiddetti ufficiali – è un prodotto dell’informazione.

Come è noto oggi la possibilità di usare le informazioni come strumento di guerra – contro una persona, una categoria sociale, una impresa o uno Stato – sono qualitativamente e quantitativamente superiori a quelle di cui l’uomo sulla terra abbia mai potuto disporre. La società della comunicazione ha reso gli utenti, sempre più profilati, i naturali bersagli di campagne sempre più ingegnerizzate e personalizzate. E non c’è dubbio che di fronte una guerra propriamente intesa – come quella fatta dalla Russia all’Ucraina – la guerra delle informazioni può rivelarsi un’arma decisiva.

Rispetto alla vecchia propaganda, la nuova disinformazia ha un obiettivo sistemico più ambizioso. Non di far credere determinate cose o di non farne credere determinate altre, ma di fare in modo che nessuno creda più a nulla, perché chiunque possa credere a tutto. Questa è la strategia che il regime russo sta utilizzando per la guerra contro l’Ucraina rispetto alle opinioni pubbliche occidentali, con il solito dispendio di mezzi: corruzione economica, intimidazione personale, ricatti politici e veleni digitali.

La “verità” che il Teatro di Mariupol stracolmo di civili sia stato bombardato dai cosiddetti “nazisti di Azov” e non dall’artiglieria russa è stato ieri disciplinatamente riportato da molti notiziari nazionali. In alcuni casi con visibile scetticismo, in altri casi più oggettivamente, per (che ridere) completezza dell’informazione, come se il mestiere giornalistico fosse quello di raccogliere e distribuire veline preconfezionate, la cui verifica sia data sostanzialmente dal loro successo, cioè dal gradimento verso il pubblico.

In questo modo, nella coincidenza di verità e viralità, in Italia nel 2013 la stampa italiana ha fatto ad esempio credere alla quasi totalità dei nostri connazionali – dopo averci essa stessa creduto – che il “metodo Stamina” non fosse una truffa, ma un protocollo medico promettente, costringendo il Governo ad avviarne la sperimentazione.

In ogni caso, l’obiettivo di Putin non è quello di sostituire con la sua propaganda l’informazione occidentale nel menù delle preferenze del pubblico, ma di destituire il sistema dell’informazione di qualunque credibilità, come se non fosse possibile una informazione diversa da quella di una semplice strategia di potere. È questo, ben prima della guerra in Ucraina, il successo ottenuto per anni dalla politica putiniana: far credere che una libera informazione è in sè impossibile e qualunque informazione è drogata, malata, tossica e subordinata al potere politico. Cioè far credere che il sistema di libertà e autonomia dell’informazione nelle società occidentali è una truffa pure peggiore dell’informazione di Stato moscovita, che non dissimula la sua dipendenza dal Cremlino.

Ci sarebbe da chiedersi angosciosamente perché questa propaganda abbia avuto così successo in Italia. E la risposta altrettanto angosciosa potrebbe essere che nella cultura politica italiana il discredito della libertà (compresa quella dell’informazione) è rimasto così forte da far pensare molti italiani (giornalisti compresi) che per molti versi Putin abbia proprio ragione. Che un’informazione più libera e responsabile non serva a una società più matura e più coesa, ma sia un semplice spreco di risorse suscettibili di un uso più profittevole: quello del condizionamento. Insomma, la disinformazia è una vera guerra di aggressione alla democrazia.