orsini grande

Freccero, per cui i massacri di Bucha sono “fiction”. Di Battista, che viene sollecitato come fosse capace di un qualsivoglia pensiero. I vari Professor Orsini (“un bambino può essere felice anche in una dittatura”), Di Cesare (“Sapevamo che in questo paese c’era la feccia: in tempi di guerra viene a galla”, amabilmente riferendosi a Guido Vitiello, suo collega, che l’aveva criticata, peraltro di passata), chiamati ad impazzare in questa sagra continua della polarizzazione garrula. Bianca Berlinguer, quasi fosse Ilaria Alpi. Lilly Gruber, Maria Grazia Cutuli. Floris, Lettermann. Giletti, Cronkite. Formigli, Ronchey. Giannini, Casalegno. Santoro, Tobagi. Luttwak, Eisenhower. Eccetera.

Non dovrebbero esistere, e invece esistono. Dovrebbero fargli chiudere bottega, e chiedergli i danni per la bancarotta morale, di conoscenza, di responsabilità che incarnano; invece, nemmeno la Pizia a Delfi ha goduto di tanta inamovibilità. Perché?
Per un equivoco: la libertà illiberale, l’arbitrio in maschera di giudizio, l’oligarchia del “ci conosciamo tutti”. E voi, potete sempre guardare noi che ci conosciamo.

Siamo indietro di trent’anni buoni, (non solo in Italia, ma massicciamente in Italia), nella ridefinizione di “libertà”, “critica”, “privato”, “pubblico”: concetti acquisiti ad una pienezza problematica di massa già nell’Ottocento, ma oggi violentemente risucchiati, dalla velocità e concentrazione digitale, in una dimensione psichedelica e regressivamente a-politica.

In questo Brave New World, la TV solo raccoglie e sedimenta il “vissuto” digitale di figure pubbliche rese “linguisticamente” a-politiche, costruite sul non-pensiero, sul rutto istantaneo, sulla profilazione automatizzante, entro un recinto di “policies private”, ma valevoli per miliardi di account.

Il “privato” che si scioglie nel “pubblico”, e viceversa. Nessuna distanza a conferire senso razionale e sentimentale al lógos; nessuna durata entro cui includerlo, serbarlo e tramandarlo. La non-parola e il non-discorso, come non-mondo. Incubo delle più pensose pagine arendtiane.

L’errore, perciò, è nel medium: di fatto, questo “doppio ordine caotico della parola (“produzione” irrazional-digitale e “distribuzione” irrazional-televisiva), è sottratto ad ogni reale discernimento critico. E nemmeno la pubblicità dei bilanci, cui anche i Gruppi Editoriali formalmente sottostanno, consente significative valutazioni, sulle “causali” effettive di simile entropia funzionale ad un dominio.

Si sapesse pure quale banca finanzia chi, rimarrebbe ancora ignota la vera ragione di un palinsesto televisivo: ragione che non è “industriale”, ma obliquamente connessa alla nota “economia di relazioni”. Insomma, se la dirigenza politica della Pólis abbaia, si vendono cani; quale che sia il prezzo. La “contropartita” non è contabile, ma invisibile; così bisognerebbe conoscere ogni sorta di co-interesse, affidato alla nebulosa dei molteplici luoghi in cui questa “economia di relazione” cura i suoi “contatti”.

Che non sono lobbyng, il quale agisce per uno scopo dichiarato; nè corruzione, che implica la violazione formale di una norma: ma erosione carsica del piano democratico, fondato sulla “parola significante”. Il talk è esattamente il contrario: diffonde e garantisce insignificanza democratica.

La neutralità politica dell’audience, allora, come criterio razionale unicamente economico-giuridico, giustificazione della “libertà di stampa”, in realtà si risolve in mito. Perché, così dis-organizzata, è una libertà asimmetricamente maggiorata, rispetto a quella dello “spettatore”: tale, e non cittadino, proprio in ragione di questa asimmetria.

La “libertà di cambiare canale”, in quanto a dimensione pulviscolare, mentre non riduce minimamente quella “Superlibertà dell’Editore” che dovrebbe bilanciare, previene, anzi, ogni serio rimedio a questo squilibrio: poiché “occupa”, con una finzione, o con uno strumento ingannevole quant’è impotente (il telecomando), lo spazio di un’azione la cui natura, per risultare efficace, non può che essere politica: cioè, comune e coordinata, secondo una proporzione di mezzo e di scopo.

È solo uno degli effetti, non casuali, determinati dalla “disintermediazione”: parola fumosa, dietro cui si maschera la scomparsa della “possibilità politica”: una classe dirigente democratica, che dal Parlamento sappia cogliere e ordinare la vita di una società nel ventunesimo secolo.

Ma proprio il Parlamento, istituzione deputata alla parola e non alla chiacchiera, smontato pezzo a pezzo perché, secondo il giudizio supremo dei “palamaridi”, via via al comando negli ultimi trent’anni, si è reso variamente “delegittimato”, “inquisito”, “impresentabile”, e finalmente, mutilato, non c’è più: se non come fantasma.

Eppure, per colmo di paradosso storico-culturale, la vanità della parola, quale attributo proprio della democrazia parlamentare, le è sempre stata contestata, invece, dai suoi nemici: “Clasa Discutidora” chiosava, sulfureo, Donoso Cortès, padre spirituale del Sillabo: quasi che la sua vanificazione, allora come oggi, non fosse proprio il frutto diretto della demonizzazione degradante da costoro perpetrata.

E così, persa la democrazia, la parola e la libertà, abbiamo i talk. E lo show.