Musk uomo dell’anno, Italia Paese dell’anno. Note a margine sulle scelte di Time e Economist
Istituzioni ed economia
Il Time e l’Economist hanno eletto rispettivamente Elon Musk e l’Italia persona e Paese dell’anno.
Partendo dal Belpaese, ci sono almeno una gigantesca omissione e due errori nel pezzo in cui l’Economist motiva la sua scelta. Vent’anni fa, come si ricorda nello stesso pezzo, il settimanale “bocciò” Berlusconi – e, indirettamente, gli italiani – definendolo, allora, «unfit to lead Italy»; Draghi, al cui insediamento a Palazzo Chigi si deve l’assegnazione del “premio”, rappresenterebbe una sorta di riscatto. È stato tuttavia omesso – e veniamo al punto – un accenno alle mutazioni del sistema politico-istituzionale, necessario perché l’accostamento tra i due Presidenti del Consiglio non appaia campato per aria.
L’Italia che nel 2001 mandò Berlusconi a Palazzo Chigi era quella contestualmente espressasi in tal senso alle urne e, per quanto possa suonare strano, era un’Italia pre-populista (il tele-populismo del primo Berlusconi era il fisiologico e “formale” portato della personalizzazione e della mediatizzazione della leadership); l’Italia che vent’anni dopo vi manderà Draghi è – sia detto nella migliore accezione dell’espressione – un’Italia “di palazzo” o, per dirla meno brutalmente, di minoranza, e cioè l’Italia di Renzi in quanto co-regista e testa di ponte dell’operazione Draghi e l’Italia di Mattarella.
Certo, nel 2018 il 18% degli elettori scelse Renzi, ma più del 54% votò nazionalpopulista (tandem salvinian-meloniano e grillini); certo, Mattarella è il personaggio di cui gli italiani, stando ai sondaggi, si fidano di più, ma si tratta di un “a posteriori”; certo, un’ampia maggioranza si è compattata sulla figura di Draghi, ma la quasi totalità dei leader di partito si è convertita al draghismo per spirito gregario – magari un minuto dopo aver urlato solennemente “o Conte o morte!” – cedendo un po’ all’autorevolezza di Mattarella un po’ all’alto profilo di Draghi un po’ alle pressioni esercitate dal contesto emergenziale un po’ per ragioni assai prosaiche e dunque indicibili; certo, il fatto che perfino i partiti antisistema (quantomeno sulla carta) ritrovino la bussola della responsabilità quando la situazione si fa seria potrebbe essere la prova inequivocabile dell'esistenza di una “italianità” intesa come schizofrenica ma comunque meritoria capacità di convertire le pulsioni irresistibilmente caciarone in buon senso pragmatico nei contesti emergenziali, ma sarebbe un'analisi psico-politica troppo profonda e per certi versi azzardata per esser presa sul serio.
Il primo degli errori “è contenuto” nell’omissione stessa: l’Economist ascrive l’impoverimento degli italiani alla «weak governance» degli ultimi vent’anni, finalmente evolutasi – questo il sottotesto – in una “strong governance” a trazione Draghi. Ma, com’è facile intuire, venuto meno Draghi i governi torneranno a essere perlopiù periclitanti ed esposti ai veti, essendo il parlamentarismo italiano a debole razionalizzazione (da tempi remoti si straparla dell’introduzione della sfiducia costruttiva, il ponte sullo stretto delle riforme costituzionali) ed essendo la qualità media delle leadership assai bassa. Draghi è un fattore contingente, la debolezza del potere esecutivo un difetto strutturale che si tenta invano di correggere da circa quart’anni.
In conclusione si legge che Draghi, da Capo dello Stato, sarebbe al più un cerimoniere; si è già scritto su queste pagine di quanto questa visione dei poteri presidenziali sia discutibile alla luce della prassi e delle stesse disposizioni costituzionali, ma è il caso di far notare, per sovrappiù, che negli ultimi cinque anni Mattarella ha prima disinnescato e poi verosimilmente convertito in euroentusiamo l’euroscetticismo della maggioranza relativa delle due Camere, senza perciò poter essere credibilmente accusato di aver innescato torsioni semipresidenzialiste.
Passando al Time, la sua scelta non ci interessa tanto per com’è stata motivata – impeccabilmente, a parere di chi scrive – quanto piuttosto per come è stata accolta.
“Time ha eletto Musk persona dell’anno? Bene, ora lo si sovra-tassi!”. E questo lo si dice e lo si scrive – lo ha scritto, fra gli altri, Elizabeth Warren, senatrice socialista con la quale l'imprenditore ha avuto un battibecco su Twitter – con una foga che tradisce un'ostilità abbondantemente a-materialista o comunque pre-materialista alla ricchezza e alla libertà d'impresa: non importa l'impatto bassamente economico di qualunque forma di redistribuzione (e infatti si omette sistematicamente qualunque riflessione su perdita secca da tassazione, costi di redistribuzione, costo-opportunità delle singole voci di spesa ecc.), si esige la (sovra-)tassazione in un'ottica punitiva, se ne deve ricavare un appagamento anzitutto spirituale: “far piangere i ricchi” importa assai più che “far ridere i poveri”, se vogliamo dirla semplicisticamente.
Di là, negli USA, la criminalizzazione fine a se stessa della ricchezza e della libertà d'impresa è il portato dell'adesione fideistica al credo marxista di una frangia del fronte liberal; di qua, in Italia, è una mentalità – dunque qualcosa di assai più interiorizzato e pre-politico di un'ideologia – figlia dell'assenza dell'etica protestante e dello spirito del capitalismo weberianamente intesi, mentalità su cui si è poi innestata naturaliter l'ideologia marxista (il catto-comunismo non è sincretismo fra opposti ma fra collaterali… pazienza se furono proprio i monaci medievali che, massimizzando divisione e specializzazione e del lavoro e liberoscambismo, s'inventarono una forma di proto-capitalismo). Giusto per fare un esempio, durante il lockdown duro, dalle nostre parti, venne a più voci invocata l'approvazione della patrimoniale Fratoianni-Orfini – l'ennesima tassa patrimoniale, ma in quel caso una tantum – nonostante i patrimoni, in Italia, siano perlopiù immobiliari (sovra-tassare gli immobili col blocco degli sfratti e le attività chiuse non sarebbe stata un’idea brillante) e investiti in BTP (sovra-tassare i titoli di stato quando li si sta emettendo in quantità industriale non sarebbe stata un’idea brillante).
Per tornare a noi, l'ostilità a Elon Musk “in-quanto-ricco” è anzitutto una piccola rivincita della Left americana “vecchio stile” sul suo figlio più disadattato e sempre più egemone, e cioè l'ideologia woke, aderendo alla quale non importa più nulla della lotta di classe, rilevano solamente l'assolutizzazione dei traumi, fisici o psicologici che siano (una volta Elon Musk, da piccolo, fu picchiato così tanto dai bulli che finì in ospedale privo di sensi), l'appartenenza a una minoranza sotto-rappresentata da opporre al lupo cattivo per eccellenza, cioè il maschio-bianco-eterosessuale-cisgender-perfettamente-in-salute (Musk è bianco e “cis-et”, come si dice in neolingua, ma è sudafricano e ha la sindrome di Asperger) e soprattutto gli asterischi e le desinenze neutre, “inclusive”, anche se esotiche. Una vignetta dei Simpson esemplifica come si deve il conflitto fra Old Fashioned Left e fronte Woke: un intellettuale “old left” dice sconfortato «nel mondo in cui viviamo, gli otto uomini più ricchi possiedono la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone in povertà assoluta o relativa» e Lisa gli risponde piccata «è vergognoso! Almeno 4 di loro dovrebbero essere donne di colore».
Fra i tanti episodi di follia woke riportati dalla scrittrice Guia Soncini nel suo “L’era della suscettibilità”, il più paradigmatico in tal senso risale all’estate del 2020 e riguarda il licenziamento di un tizio della sorveglianza del palazzo che ospita la sede dell'editore di Vogue, colpevole di aver scambiato per un fattorino il direttore dell’edizione inglese del mensile, un uomo di colore (e gay! L'anti-maschio-etero-ecc.), e di avergli di conseguenza intimato di usare l'ascensore di servizio. La lotta di classe, si diceva, è nulla (guardia giurata, proletariato urbano), il trauma e l'appartenenza a una minoranza è tutto (molto ricco ma nero e gay, vuoi mettere?).
Ma avere ragione sul wokismo – cosa facile – non implica avere ragione in assoluto. Elon Musk, l’uomo che ha pagato in assoluto più tasse nella storia degli USA, non piangerebbe affatto a fronte di ulteriori imposte, e gli effetti inintenzionali dei suoi maxi-investimenti, da ultimo SpaceX, faranno per i meno abbienti assai più di quanto gli stessi soldi non farebbero se dirottati allo Stato, con buona pace di Mariana Mazzucato del suo Stato-innovatore.
Fra l’altro Time assegna il premio sul mero criterio dell'influenza, in una prospettiva del tutto a-ideologica: così si spiega la triade Hitler-Stalin-Churchill rispettivamente nel '38-'39-'40: la scelta di Musk non è l’ennesimo endorsement “all’egemonia neoliberista”, formula- passepartout con cui dagli anni ’80 in poi si individua la causa di qualunque disastro; perfino se deraglia un treno in Puglia ci si trova inequivocabilmente di fronte all’ennesima conseguenza della “egemonia neoliberista”, seppure giusto in Italia, a dirla tutta, il neoliberismo non ha mai o quasi trovato dimora. La stagione brevissima delle semi-privatizzazioni risale agli anni ’90 e ha fra gli altri il volto di Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro; a parere di chi scrive sia l’Italia, Paese reduce da un lunghissimo e da ultimo corrottissimo dopoguerra keynesiano (parentesi einaudiana-degasperiana a parte), sia l’uomo-chiave dell’inversione di rotta avrebbero meritato almeno un premio di fine anno, ma allora l’Economist non ne assegnava e il Time guardava altrove.