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Le crisi di Palazzo sono quelle in cui il problema politico non è trovare la quadra tra l’efficienza del governo e la tenuta del consenso, cioè tra il bene dell’Italia e il favore degli italiani, ma come racimolare e quanto pagare i “numeri” per la continuità dell’esecutivo e della legislatura.

La crisi in corso è appunto una crisi di Palazzo, che non ha al centro il problema di come non sprecare il Next Generation Eu, ma di come reclutare altri cinque o sei Ciampolillo.

Le crisi di Palazzo appaiono un suq perché oggettivamente lo sono, cioè sono mercati in cui domanda e offerta di utilità si incontrano sempre al prezzo giusto, che è quello dell’equilibrio delle transazioni tra operatori che cercano, ciascuno, di massimizzare il proprio vantaggio, sapendo tutti di potere socializzare parte del costo dell’operazione. Oggi la crisi si trascina, nel braccio di ferro tra chi offre poco e chi chiede troppo, perché il prezzo giusto non è ancora stato trovato.

La “responsabilità” dei cosiddetti costruttori costa molto di più di quanto previsto e non è detto che altri siano disponibili a pagare un prezzo così alto, soprattutto in termini reputazionali. Se – diciamo – Ciampolillo è, come dice, disponibile a fare il Ministro dell’Agricoltura, al PD potrebbe parere obiettivamente insostenibile e sputtanante intronare Ciampolillo Ministro, pur di fare proseguire la legislatura.

Le transazioni in corso sono comunque talmente “privatistiche” che non hanno neppure bisogno di camuffarsi in senso politico-ideologico. I “costruttori” non sono di destra, non sono di sinistra, non sono di niente. Non sono un nuovo partito, né lo vogliono fare. Vogliono stare con Conte, se Conte paga (anche se non direttamente con dazioni di denaro). Sono soldati di ventura pronti a prestare servizio per un generale anch’esso mercenario – il presidente di tutte le maggioranze, l’avvocato di tutte le Italie possibili: sovraniste e europeiste, orbaniane e merkeliane, trumpiane e bideniane – reclutati da caporali di lungo corso (il sottobosco di tutte le furerie centriste della seconda Repubblica).

Ora è evidente che la democrazia parlamentare consente e autorizza tutti i cambi di maggioranza e che lo stesso parlamento può esprimere le maggioranze più varie. Ma non può diventare il luogo in cui la spoliticizzazione e l'istitutuzionalizzazione del do ut des privatistico assume una forma così scoperta e dichiarata. Anzi può, visto che sta succedendo. Ma non dovrebbe. E tra le varie preoccupazioni dell’ufficio, questa dovrebbe forse stare in cima ai pensieri del Capo dello Stato. Ma non pare che sia così.

È comunque interessante e in fondo coerente che la parabola finale della legislatura, in cui gli squadristi dell’onestà hanno preso il potere, rifletta esattamente l’idea che l’antipolitica ha sempre avuto della politica e gli antiparlamentari del Parlamento: il tempio del voto di scambio, con gli scambisti a trafficare per trarne vantaggio. Infatti l'antipolitica non è il rimedio o l'alternativa, ma l'ennesimo ed estremo travestimento del trasformismo politico italiano.