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La fatidica data del 3 aprile si avvicina inesorabilmente. Tuttavia, con l’annuncio di un lockdown prorogabile fino a luglio, appare sempre più chiaro come il Governo, impegnato solo a regolamentare rigidamente ogni attività economica e a limitare gran parte delle libertà dei cittadini, non abbia ancora formulato una strategia di uscita dal cul de sac in cui ha fatto piombare il Paese — nei migliori dei casi a colpi di decreti, nei peggiori a suon di discorsi alla Nazione tutt’altro che confortanti, rigorosamente in notturna e in diretta Facebook.

Si diffonde così tra i cittadini, in modo del tutto legittimo, la convinzione che quello del 3 aprile sia un semplice miraggio, una tappa intermedia su un tragitto di cui non si intravede la meta — con gravi ripercussioni sulla tenuta sociale di un Paese che, oltre alla salute, sta perdendo la fiducia.

È così che, di giorno in giorno, appare sempre più evidente come la strategia comunicativa di istituzioni e media, interamente improntata alla narrazione bellica, non sia altro che l’instrumentum regni di chi si trova a dover giustificare, in qualche modo, il cappio sempre più stringente legato al collo del tessuto economico e la sospensione dalla notte al giorno delle libertà fondamentali dei cittadini.
Procrastinare, inasprire la serrata - con la complicità di chi paventa soluzioni cinesi - rende semplicemente più chiaro, ormai agli occhi di tutti, come la presunta contrapposizione tra il modello italiano e la strategia adottata fino a pochi giorni fa dal Regno Unito sia solo apparente. Quella tra contenimento dell’epidemia e sopravvivenza economica è una non-scelta, del tutto impraticabile nel lungo periodo e figlia di una non-strategia: quella del rimanere inermi, aspettando un vaccino come si aspetta Godot.

La realtà, come sempre accade, è ben diversa dalle narrazioni, e il divario tra il racconto di un Paese in guerra - con il ricorso a termini presi in prestito dal lessico militare, quali “fronte”, “trincea”, bollettino” - e l’operato del Governo appare incolmabile.
La verità è che un Paese realmente in guerra non serra l’economia e non blinda in casa la popolazione attiva, condannandola all’inerzia. Al contrario, cerca di trarre il massimo dalle attività economiche rimaste in piedi e si affida ai cittadini sani e non impegnati sul fronte per sostenere il tessuto produttivo e tutelare i più deboli.

Quel che ci accomuna ai Paesi realmente in guerra è soltanto la propaganda di retaggio orwelliano: l’inebriamento da balcone per i simboli dello Stato e la retorica bellica, la disgustosa fascinazione per le derive militaresche e totalitarie, la caccia alle streghe condotta da sindaci e amministratori - autoproclamatisi sceriffi - contro i presunti untori di manzoniana memoria, il minuto d’odio istituito dal Grande Fratello contro runner e padroni di cani, osservati da delatori che si ergono a cittadini modello da dietro le persiane, in condomìni che assumono la funzione del Panopticon di “Sorvegliare e punire” di Foucault.
Una guerra tra sudditi - molti dei quali senza più lavoro, spogliati di alcuni diritti fondamentali e posti gli uni contro gli altri - orchestrata da un Governo che non sa più come giustificare la deriva dell’uomo solo al comando, ove la sospensione della democrazia non ha portato i frutti sperati, nel Paese occidentale con il più alto numero di contagi e decessi.

In questa farsa, i TG, sempre più simili ai vecchi cinegiornali dell’Istituto Luce, giocano un ruolo imprescindibile, dediti come sono a un voyeurismo macabro e disumano verso la situazione nei Paesi confinanti, nella speranza, secondo la logica del “tanto peggio, tanto meglio”, che oltre il confine si registrino più contagi, più morti, più incidenti ed errori nella gestione dell’emergenza.
Fa parte della farsa, necessaria per celare l’incompetenza e le gravi responsabilità del Governo nella mancanza di pianificazione e nella disastrosa gestione del day-by-day (tra ritardi nel blindare i focolai lombardi, esodi provocati da prevedibili fughe di notizie, assembramenti nei supermercati causati dall’annuncio della riduzione degli orari di apertura), anche la sottile operazione volta a convincere la popolazione che la via intrapresa non sia solo la migliore, ma anche l’unica possibile e concepibile.

Eppure, l’alternativa democratica, liberale ed efficace nella lotta all’epidemia è sotto gli occhi di tutti - rappresentata, guarda caso, da un Paese che è davvero in guerra: la Corea del Sud.
Si tratta di un’alternativa, per citare il New York Times, che “ha appiattito la curva dei contagi senza ricorrere alle repressioni draconiane della Cina alla libertà di movimento e di parola e senza imporre quarantene che danneggiano l’economia, come quelle in Europa e negli Stati Uniti”.

Alla Corea del Sud non occorre inventare un nemico fantoccio a scopo propagandistico per indorare la pillola di fronte a fragorosi fallimenti, perché combatte quotidianamente contro un nemico in carne e ossa, che parla la sua stessa lingua, vive a pochi chilometri di distanza e minaccia la sicurezza e la libertà dei suoi cittadini.
Le democrazie come la Corea del Sud e Israele, che vivono con il nemico alle porte, conoscono a mena dito quella lezione di Karl Popper che il resto dell’Occidente sembra aver dimenticato: “il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza”.
I sudcoreani non possono permettersi di abbassare la guardia, e non finiscono così per produrre classi dirigenti tronfie, arroganti, che vincono elezioni perché più abili dei propri oppositori nella comunicazione politica e nell’intercettazione del consenso di pancia ma che sono totalmente prive di leadership e competenze effettive nella gestione della cosa pubblica.
In Paesi in cui la libertà, la democrazia e la pace non vengono date per scontate, insomma, il potere non viene mai conferito senza che ne derivino immense responsabilità.

È più semplice, a danni fatti, serrare indistintamente tutti in casa e condannare il Paese a sprofondare nel baratro di una colossale crisi economica, con milioni di italiani senza un vero reddito.
Per seguire l’esempio della Corea del Sud, come chiesto a gran voce dal direttore generale dell’OMS, occorre effettuare tamponi a tappeto sulla popolazione, così da ottenere una mappatura dei contagi il più fedele possibile alla realtà e poter costringere selettivamente in quarantena solo chi risulta positivo, con sistemi di tracciamento digitale degli spostamenti. Tale violazione della privacy, in buona sostanza, è il prezzo che i contagiati pagano alla società per non dare luogo a esternalità negative, quali la diffusione dell’epidemia su tutto il territorio nazionale, i lockdown e la contrazione indiscriminata delle libertà anche dei cittadini sani.

Il sottosviluppo non colpisce a caso. Anziché addurre la capacità di reazione e pianificazione della Corea del Sud alla sua ricchezza, come se questa fosse data per natura e non conquistata faticosamente, dovremmo capire che, al contrario, è la cultura diffusa nel Paese asiatico a determinare le ragioni del suo benessere.
Non si vuole affermare che sarebbe auspicabile, in Italia e in Europa, riaprire tutte le attività e ripristinare il normale ordine delle cose già da domattina, né che il modello sudcoreano sia replicabile in toto nel nostro Paese — quanto meno senza che se ne creino i presupposti.
Quel che è realistico sostenere, a ogni modo, è che l’approccio di Seul dovrebbe rappresentare la best practice di riferimento per formulare una exit strategy vera, attendibile, che si ponga concretamente il problema del come uscire, prima e meglio possibile, dalla quarantena generalizzata.

Non è denunciando, ma effettuando tamponi a chiunque venga fermato in strada che i controlli e i posti di blocco delle forze dell’ordine assumono utilità pubblica. Non è regalando ad Alitalia l'ennesima tranche di sussidi, per un costo equivalente alla realizzazione di 7.500 posti letto di terapia intensiva, che si potenzia il servizio sanitario nazionale.
Senza un cambio di paradigma dalla serrata alla prevenzione, ogni sforzo sarà vano e queste settimane di quarantena resteranno il tentativo disperato di una nazione irrimediabilmente impreparata, piuttosto che l’occasione per rimettersi in carreggiata dopo gli errori commessi nella fase iniziale.
In meno di una settimana dal primo caso di coronavirus sul territorio nazionale, il Governo di Seul aveva già stipulato accordi con le aziende per incrementare la produzione di tamponi, che dopo due settimane si attestava già a 100.000 unità al giorno, con trattative in atto per esportarli in 17 Paesi.
Al contrario di quel che ci si aspetterebbe dal Paese con il più alto numero di decessi di tutto l’Occidente, i dati della Protezione Civile per la giornata del 23 marzo indicano una riduzione dei tamponi effettuati, soprattutto nelle Regioni più colpite dall’epidemia - segno evidente che non si stanno intraprendendo quelle mosse necessarie a ridurre il divario con la Corea.

Il SARS-CoV-2, come sostiene Luttwak, è il virus della verità: quella esposta in Italia è la triste realtà di un Paese con una scarsissima capacità amministrativa, convinto di avere la Costituzione più bella e la sanità migliore del mondo solo quando va tutto per il verso giusto, salvo poi svegliarsi dal sogno delle narrazioni patriottiche e piombare nell’incubo di un’economia non in grado di reggere il benché minimo urto e di un sistema sanitario estremamente debole e sottodimensionato per una popolazione di oltre 60 milioni di individui.
All’improvviso e nel modo meno prevedibile, la realtà sta presentando un conto che, con ogni probabilità, questo Paese non sarà in grado di saldare.