Siamo tutti più o meno in attesa di una luce in fondo al tunnel, che ancora non si vede e siamo consapevoli che della nuova peste globale sono più le cose che non si sanno che quelle che si sanno e di queste sole la “scienza” può dare vera testimonianza.

Dagli scienziati sui punti più sensibili e angosciosi (Chi si ammala si immunizza? Dobbiamo temere gli asintomatici?) abbiamo sentito dire cose molto diverse e a volte contrarie, perché la contraddizione oggi è la cifra dell’incertezza, non necessariamente dell’errore.

Dall’incertezza deriva un uso largo e potenzialmente sconsiderato del principio di precauzione, a partire dalla trasformazione della vita civile in un enorme esperimento socio-sanitario, affrancato da vincoli giuridici e politici, cioè al di là dello stato di diritto e della democrazia.

Sono anche tempi interessanti per quanti hanno passione e diletto dell’eterna commedia del potere, che in tempi di peste si fa sempre più grave e ridicola, tragica e squallida. Ad esempio vedere un uomo politico senza qualità come Conte, funzionale a ogni potere, contenitore di ogni contenuto possibile, trasformarsi in uno statista apprezzato e in un salvatore della patria. Dalla sfigataggine no vax, agli elogi della virologia combattente. E con indici di popolarità da Guinness dei primati. E poi sono tempi cupi, che vedono avanzare con il contagio l’ombra lunga del dragone cinese, insieme malattia e cura del mondo, con i suoi modi così efficienti e così “scientifici”.

Nulla sarà più come prima ma intanto l’Italia rimane sempre l’Italia: retorica, stentorea, patriottarda, ipocrita, trasformistica. Il contagio ci è scappato di mano – e la cosa non è per forza una colpa, ma nemmeno un merito: diciamo che nella migliore delle ipotesi è un caso molto sfortunato – e ci presentiamo come un esempio per il mondo. Siamo arrivati alla crisi in brache di tela, scopriamo di avere pochi posti in terapia intensiva e diamo la colpa all’austerità europea, quando dal 2008 a oggi abbiamo buttato nel cesso quasi 10 miliardi per salvare, ri-salvare e ri-ri-salvare Alitalia (quanti posti in terapia intensiva si fanno, con 10 miliardi?).

A differenza degli altri Paesi europei che hanno margini di bilancio e di indebitamento capaci di finanziare l’emergenza e la risposta all’emergenza noi dobbiamo aspettare i quattrini della BCE e poi quelli dell’Ue, ma intanto facciamo la lezione a Francoforte e a Bruxelles e ci scappelliamo davanti a medici e infermieri mandati da Pechino, nel giorno in cui raccogliamo la staffetta di Paese campione di morti da Coronavirus.

In ogni caso non sappiamo se il lockdown funzionerà, in assenza di complementi “coreani” per interventi selettivi per cui forse, da quel che capiamo (ma possiamo sbagliare), potrebbe comunque essere troppo tardi. D’altra parte sarebbe anche sbagliato concludere che oggi – visto il record di morti – non stanno sortendo effetti di sorta le misure hard di contenimento avviate dall’11 marzo. Si naviga a vista, ma, come dicono anche gli esperti, i numeri su cui si basano le previsioni potrebbero essere essi stessi sbagliati, a causa dell’effetto saturazione e del collasso delle strutture sanitarie lombarde.

Poi scopriamo che otto malati di Covid-19 su cento sono operatori sanitari contagiatisi, probabilmente, in servizio. Il doppio che in Cina e nelle regioni con la migliore sanità italiana. E mancano i dati, mi pare, dei positivi (morti compresi), che erano già ospedalizzati o istituzionalizzati (in cronicari, hospice o residenze per anziani e disabili) nel momento in cui ne è stata riscontrata la positività.

Emergono divisioni incomprensibili tra Stato e regioni e tra diverse regioni sulle strategie di contenimento e di cura, a partire dalla querelle sull’uso dei tamponi e da tassi di ospedalizzazione radicalmente diversi. La letalità del virus in Italia è apparentemente abnorme ed è spiegata dagli esperti in modo diverso (età della popolazione, livelli di inquinamento, farmacoresistenza dei pazienti, abitudine al fumo nella popolazione più anziana…).

A differenza degli addetti ai lavori, che sono pochissimi, siamo tantissimi a non potere capire, ma a dovere solo credere, con criteri di fiducia razionale e non puramente fideistica e dunque messa duramente alla prova da una situazione che vede ancora tutti, compresi gli addetti ai lavori, in terra incognita.

Ma c’è qualcosa – sono tutte cattive notizie – che inizia a farsi chiaro anche ai non addetti ai lavori e che istituzioni e “tecnici” non possono contraddire, ma semmai provare ad addebitare a responsabili che stanno fuori dal perimetro del potere. E lì scatta il “principio dell’untore”

La situazione è ben lontana dal migliorare come tutti speravano e dall’apparire risolvibile in tempi calcolabili nell’ordine di qualche settimana o di qualche mese. E in Italia sono nel frattempo successe una serie di cose che non dovevano succedere.

A favorire la diffusione del contagio, quando era già evidente la gravità del fenomeno, sono stati i ritardi nella restrizione di alcune attività, che comportano assembramenti o contatti fisici, e l’esodo dal Nord al Sud legato a una scelta improvvida del Governo, che ha comunicato il 7 marzo un “blocco” che in realtà non aveva disposto, consentendo, per giorni, a decine (o forse centinaia) di migliaia di persone di spostarsi da Nord a Sud, senza imporre loro alcuna disciplina e cautela.

La grande parte dei 22 milioni e rotti di occupati italiani continua ovviamente a lavorare, fatta esclusione per quanti hanno perso il lavoro o sono impediti dallo svolgerlo per i provvedimenti dell’esecutivo: ma questi sono, in ogni caso, alcuni milioni, una piccola minoranza di tutti i lavoratori. Non so quanti attualmente lavorino in modalità smart, ma escludo che siano più di qualche milione.

È dunque abbastanza verosimile che la grandissima maggioranza dei lavoratori ogni mattina si alzi, prenda l’auto, o il treno pendolari, o la metropolitana, o l’autobus o la corriera e vada sul posto di lavoro, incrociando ogni giorno altre decine o centinaia di persone e provando con fatica a garantire quel minimo distanziamento sociale, prescritto dalle norme.

Milioni e milioni di persone escono inoltre ogni giorno per andare in centinaia di migliaia di esercizi commerciali – alimentari, farmacie, casalinghi, supermercati, ipermercati – incrociando ciascuno decine o centinaia di persone. E chi va a lavorare o va a fare acquisti è obbligato giocoforza ad avere una serie di interazioni sociali a rischio, rese ancora più rischiose dalla indisponibilità di guanti e mascherine.

Altre centinaia di migliaia di persone vanno ogni giorno in banca, alla posta e in migliaia di uffici pubblici (a partire da quelli degli ottomila comuni italiani) a sbrigare pratiche di vita e di attività quotidiana. Centinaia di migliaia di tecnici – muratori, idraulici, elettricisti, ascensoristi, caldaisti, informatici…– entrano ogni giorno nelle case “isolate” degli italiani, per interventi urgenti e non differibili.

Undici milioni e mezzo di fumatori continuano ad andare nelle cinquantamila tabaccherie italiane, che ovviamente non si possono chiudere da un giorno all’altro senza provocare veri e propri disordini sociali, con un quinto della popolazione italiana in età adulta in piena crisi di astinenza.

Abbiamo chiuso tutto quello che potevamo chiudere, senza mettere a rischio l’approvvigionamento di beni e servizi essenziali e senza rendere le nostre città e le nostre campagne delle galere militarizzate e continua però a rimbombare una retorica colpevolistica, contro chi non rispetta le regole, chi abusa delle libertà consentite e ormai anche contro chi contravviene al “senso comune”.

Non si può dire che tutto quello che succede, anche di brutto, o di deludente rispetto alle attese degli effetti del lockdown (che peraltro devono ancora manifestarsi) sia legato al fatto che milioni e milioni di cittadini e di lavoratori continuano a comprare, a vendere, a lavorare, a mangiare, a bere, a fumare e quindi a intrattenere miliardi di quotidiane “relazioni pericolose” ai fini del contagio. Il colpevole, per “funzionare”, deve stare fuori da questo perimetro, anche se fuori da questo perimetro non c’è più letteralmente nessuno. E lì deve essere intervenuto il genio comunicazionale dell’ingegnere Casalino o di altri inquinatori di pozzi mediatici, di una stampa di servizio e di una politica auto-reclutata nella caccia ai disobbedienti (a partire dai leghisti che devo giustificare la debacle nelle “loro” regioni).

Il paradosso è che questa escalation accusatoria verso gli untori avviene mentre l’adesione alle regole e la collaborazione dei cittadini, in linea generale, è ancora fortissima e, come dimostrano i sondaggi, prevale un clima di unità e di partecipazione all’impresa comune. Le strade sono vuote, pressoché ovunque. Le immagini degli assembramenti censurati ogni ora da tutti i politici di governo su tutti i media praticamente non esistono, se non in via del tutto eccezionale (a parte i fake).

I dati sui controlli del Ministero dell’Interno confermano un’adesione straordinaria alle norme restrittive. Dall’11 marzo a ieri sono state 1.226.169 le persone controllate, 51.892 quelle denunciate ex articolo 650 C. P. e 1.126 le denunce ex articolo 495 C. P. Siamo circa al 4%. I dati delle celle telefoniche, che la Regione Lombardia esibisce come la “prova provata” della gravità delle infrazioni dice che dal 20 febbraio a oggi il calo dei movimenti da casa all’esterno è stato “solo” del 60%. Ma visto che le persone e le attività fermate dal Dpcm del Governo (alcune del commercio e della ristorazione) sono assai meno del 40% del totale degli occupati, anche i dati delle celle telefoniche confermano una sostanziale adesione alle prescrizioni, perché escono comunque da casa per spese essenziali e ragioni di necessità anche milioni di persone che non lavorano.

Eppure la mobilitazione emotiva a cui chiamano i media e la tv è quella della caccia all’uomo invisibile, che mette a rischio gli sforzi comuni. Un pericolo impersonale e impalpabile, ma incombente. È una strategia precisa di gestione del fallimento.

Servono gli untori e quindi si “battezzano” untori improbabili: quelli che passeggiano con il cane, i runner che corrono soli al parco, i vecchi che passeggiano sotto casa. Ovviamente non si può dire che contagino qualcuno, né che si facciano contagiare nel deserto di città e nel vuoto di campagne sigillate dalla paura. Ma “disobbediscono”, neppure a una norma che invece esplicitamente consente oggi loro di fare questo, senza danni per nessuno. Ma allo “spirito della patria”. Gli untori d’altra parte non servono per spiegare la peste, ma a spiegare perché il governo non riesce a fermare la peste. Non sono la causa del contagio. Sono l’alibi della disfatta del potere.

Visto che la fase due del lockdown sarà quella più complicata – bisognerà spiegare alla gente che dopo due settimane di clausura bisogna aspettarsene almeno altre quattro o cinque per uscire da questa condizione di libertà vigilata – e visto che sul fronte propriamente sanitario le cose potrebbero andare comunque malissimo per un lunghissimo periodo (e lasciamo stare il fronte economico), bisogna preventivamente colpevolizzare dall’alto in basso, dal governo ai cittadini, per evitare che il processo di colpevolizzazione vada dal basso all’alto, dai cittadini al governo. Per fare questo non c’è niente di meglio di quella tossica invidia della libertà ancora possibile per alcuni, pochissimi e quindi come sequestrata ad altri – che non saprebbero che farsene: di un cane, di un paio di scarpe da running, di una passeggiata al parco – ma non vogliono che altri abbiano quello che loro non hanno più: un piccolo spazio di serenità e di svago, la possibilità di continuare a essere, almeno un po’, se stessi.

L’importante è che gli untori siano pochissimi (e invisibili) perché la maggioranza del popolo si possa iscrivere tra i cacciatori. L’importante è che la cattiva coscienza del potere e la cattiva coscienza dei cittadini si saldino in un patto inconfessabile, di reciproca soddisfazione e indulgenza. È esattamente quello che sta avvenendo. Non c’entra con la lotta al Coronavirus, ma con l’uso politico del Coronavirus e con la gestione dei tempi bui che si annunciano. Arrivano gli untori, perché sono ‘necessari’, ma non esistono neppure questa volta.

@carmelopalma